Storicamente, il sistema giuridico italiano ha conosciuto una pluralità di modelli organizzativi d’impresa pubblica e, fino all’inizio degli anni Novanta, la scienza giuridica ha largamente accolto la tripartizione classificatoria proposta da M.S. Giannini, per cui si hanno imprese imputate ad un organo dell’ente pubblico, ad un ente pubblico strumentale, ovvero ad una società di diritto privato a partecipazione pubblica. In seguito, si è verificato un “avanzamento” verso il modello organizzativo della società per azioni di diritto comune, destinata ad una rapida dismissione della partecipazione pubblica. Tuttavia, la scienza giuridica si è sempre più concentrata su nuove società di diritto speciale e singolare, le c.d. società pubbliche: tale fenomeno impone dunque un confronto tra i costi e i benefici delle soluzioni organizzative antiche e attuali e una valutazione in termini di analisi economica del diritto della proprietà dell’impresa, non soltanto privata ma anche pubblica. Il processo di privatizzazione intrapreso all’inizio degli anni Novanta ha originato una vasta area di società a partecipazione occasionalmente pubblica, ad esempio nei tradizionali settori di servizio pubblico, dando luogo ad almeno tre “dilemmi” dello Stato azionista: il primo riguarda la cura degli interessi di politica industriale, il secondo si pone in relazione all’introduzione della concorrenza e il terzo concerne l’obiettivo di massimizzare l’efficienza dell’impresa e i suoi profitti. La proliferazione delle società strumentali reca con sé alcune incongruenze, prima fra tutte la loro sottoposizione a poteri d’indirizzo e vigilanza governativa, che può vanificare la ricerca di soluzioni organizzative più efficienti in nome del primato riconosciuto all’indirizzo politico-economico del ministro “vigilante”, potendo la partecipazione dei privati al capitale divenire vittima della strumentalità del potere pubblico. Il quadro tipologico è reso peraltro più complesso dalla comparsa delle società in house, interne cioè ad un ente pubblico, perché quest’ultimo esercita su di esse un controllo equiparabile a quello operato sui propri uffici: i costi della “rinascita” dell’impresa-organo, dunque, si traducono nella soggezione, in molti casi, alla formazione amministrativa. Per una riforma del diritto societario pubblico sarebbero quindi auspicabili norme e criteri generali che riducano l’arbitrio del legislatore speciale e singolare e individuino una governance modulata a seconda dell’ambito operativo e dei compiti svolti da ciascuna società, ponendosi il problema di scegliere la struttura organizzativa più conveniente ed efficiente rispetto agli obiettivi prefissati.

Napolitano, G. (2006). Le società “pubbliche” tra vecchie e nuove tipologie. RIVISTA DELLE SOCIETÀ(5-6), 999-1014.

Le società “pubbliche” tra vecchie e nuove tipologie

NAPOLITANO, GIULIO
2006-01-01

Abstract

Storicamente, il sistema giuridico italiano ha conosciuto una pluralità di modelli organizzativi d’impresa pubblica e, fino all’inizio degli anni Novanta, la scienza giuridica ha largamente accolto la tripartizione classificatoria proposta da M.S. Giannini, per cui si hanno imprese imputate ad un organo dell’ente pubblico, ad un ente pubblico strumentale, ovvero ad una società di diritto privato a partecipazione pubblica. In seguito, si è verificato un “avanzamento” verso il modello organizzativo della società per azioni di diritto comune, destinata ad una rapida dismissione della partecipazione pubblica. Tuttavia, la scienza giuridica si è sempre più concentrata su nuove società di diritto speciale e singolare, le c.d. società pubbliche: tale fenomeno impone dunque un confronto tra i costi e i benefici delle soluzioni organizzative antiche e attuali e una valutazione in termini di analisi economica del diritto della proprietà dell’impresa, non soltanto privata ma anche pubblica. Il processo di privatizzazione intrapreso all’inizio degli anni Novanta ha originato una vasta area di società a partecipazione occasionalmente pubblica, ad esempio nei tradizionali settori di servizio pubblico, dando luogo ad almeno tre “dilemmi” dello Stato azionista: il primo riguarda la cura degli interessi di politica industriale, il secondo si pone in relazione all’introduzione della concorrenza e il terzo concerne l’obiettivo di massimizzare l’efficienza dell’impresa e i suoi profitti. La proliferazione delle società strumentali reca con sé alcune incongruenze, prima fra tutte la loro sottoposizione a poteri d’indirizzo e vigilanza governativa, che può vanificare la ricerca di soluzioni organizzative più efficienti in nome del primato riconosciuto all’indirizzo politico-economico del ministro “vigilante”, potendo la partecipazione dei privati al capitale divenire vittima della strumentalità del potere pubblico. Il quadro tipologico è reso peraltro più complesso dalla comparsa delle società in house, interne cioè ad un ente pubblico, perché quest’ultimo esercita su di esse un controllo equiparabile a quello operato sui propri uffici: i costi della “rinascita” dell’impresa-organo, dunque, si traducono nella soggezione, in molti casi, alla formazione amministrativa. Per una riforma del diritto societario pubblico sarebbero quindi auspicabili norme e criteri generali che riducano l’arbitrio del legislatore speciale e singolare e individuino una governance modulata a seconda dell’ambito operativo e dei compiti svolti da ciascuna società, ponendosi il problema di scegliere la struttura organizzativa più conveniente ed efficiente rispetto agli obiettivi prefissati.
2006
Napolitano, G. (2006). Le società “pubbliche” tra vecchie e nuove tipologie. RIVISTA DELLE SOCIETÀ(5-6), 999-1014.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11590/115024
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