Faticosamente, e da decenni, le scienze sociali cercano di dare senso e direzione al cambiamento delle società europee una volta crollati i blocchi politici, le grandi narrazioni e quella certa, infida e incerta coerenza che la storicità della tradizione assicurava – come abbiamo gramscianamente appreso a declinare – alla cultura, all’ideologia o al territorio. Dagli anni ’70, invece, la velocità, l’incoerenza, la spregiudicatezza insidiano la possibilità di un discorso critico efficace. Guardare agli Stati Uniti è sempre stato uno dei modi per indagare un futuro possibile o la presenza di durevoli relazioni causali. Così, a più riprese, numerosi studiosi si sono cimentati con l’esempio statunitense, anche nel campo della pianificazione e degli studi urbani (uno per tutti: Crosta 1975). Gli autori del volume pensano evidentemente che questa operazione abbia ancora senso oggi che la stessa America pare avviata al tramonto. Su questo punto, l’opportunità di un confronto, si può facilmente convenire. Uno dei motivi per cui gli Stati Uniti costituiscono una sfida durevole, sia storicamente che da un punto di vista teorico, è per il carattere di massa e lo sradicamento spaziale, ambedue espressi dalla celebre icona della frontiera mobile. Ma anche per il più sfuggente e forse più incisivo connotato della malleabile identità politica che, in modo molto contemporaneo, si fonda plasticamente su un’appartenenza acquisita e storicamente costruita più che su quella ricevuta: a differenza degli stati della vecchia Europa, americani non si nasce, ma si diventa. Insomma, gli Stati uniti testimoniano al tempo stesso di una costituzione tipicamente moderna, la frontiera che continuamente ‘melts into air’; e postmoderna, l’identità ibrida che tutto ingloba e a tutto si adatta. Con maggior precisione, il sottotitolo del volume circoscrive questa possibilità nella contradditoria natura dell’impero: “tempo di oppressione, disuguaglianza, violenza [ma anche di] emancipazione, bellezza, creatività” (p. 12). E’ un posizionamento chiaro e opportuno che avvia una descrizione orientata dalla domanda se gli Stati Uniti siano il nostro futuro: una nazione che ha saputo organizzare la società di massa a differenza dell’Europa (e dell’Italia), felici eccezioni (anche teoriche) ma eccezioni destinate a sparire perché terra di desueti confini scritti sulla terra, di identità territorialmente circoscritte, di semantiche intraducibili nel linguaggio universale della globalizzazioni. Saremmo allora americanizzati perché nell’epoca delle masse; ma anche perché parla americano il ‘dispositivo’ che permette di gestirle. E quindi il mondo si massifica e, in parte, si americanizza perché gli USA hanno finora fornito il vocabolario per pensare questo frangente storico. Quando la Cina o gli Emirati si affacciano su questo pozzo vertiginoso, è inevitabile che facciano uso del lessico elaborato da chi per primo ha affrontato il problema. La città contemporanea è espressione diretta (in realtà quasi diretta, molti sono gli spazi di resistenza e di sfrido) della società di massa e della cultura popolare, due caratteri che si affermano e danno il segno al ‘900 globale, al capitalismo del consumo e all’immaginario culturale della globalizzazione. In quel periodo, negli Stati Uniti si elabora e si costruisce un nuovo modello di città, con la fuga delle classi medio-alte verso i sobborghi, la segregazione al centro degli operai dell’industria e, soprattutto, delle masse di immigrati, e la concentrazione del lavoro terziario nei CBD di downtown. Con questa apertura, i tre ricercatori mettono le basi di una ricostruzione genealogica in chiave dichiaratamente foucaultiana, secondo un approccio radicato nel gruppo napoletano. In particolare, nel primo saggio, che da solo compone circa la metà del libro, Lieto ricostruisce la “forma” grattacielo che da Manhattan giunge a caratterizzare gli sviluppi contemporanei delle città in tutto il mondo. Con non pochi excursus e intermezzi, alcuni episodi spaziali sono proposti come passaggi cruciali e contribuiscono a fissare gli elementi di un dispositivo spaziale. Il concepimento del grattacielo, l’interiorizzazione di norme e valori dovuti al rischio di distruzione per gli incendi, la duplice natura del ghetto, la scala metropolitana… Il saggio si dichiara consapevole della eterogeneità dei materiali proposti, che ruotano attorno alla distruzione violenta e alla capacità di rigenerarsi del centro del capitalismo finanziario mondiale, e si propone di risolverla innestando la lettura teorica della sedimentazione del dispositivo sulla interpretazione che la geografia neomarxista statunitense (a sua volta piuttosto eterogenea negli inizi e negli esiti: Castells, Hall, Harvey, Sassen) ha compiuto della globalizzazione urbana. Questo snodo consente di concludere che: “il corpo della metropoli diviene un progetto planetario” per la sua capacità di deterritorializzare e ibridare elementi diversi e disparati nel tempo e nello spazio (p.78). Nel secondo intervento Formato indaga la diffusione dei suburbs pavillonaire e il mito pseudo-naturalistico della dissoluzione urbana. Il tema è il reciproco del precedente. Come Lieto indaga la disseminazione del grattacielo come segno dell’impero, Formato studia la disseminazione del sobborgo. Con una scombussolante differenza: il grattacielo proclama un significato celebrativo, mentre la diffusione urbana proietta “una sterminata disseminazione di equivoci”. Il saggio tratteggia efficacemente la costruzione del mito illuminista del ritorno alla natura e ripercorre la progressiva traduzione di questo negli elementi di tecnica urbanistica dispiegata in seguito nei piani modernisti. Un ruolo significativo è attribuito ad Olmsted e le sue prime sperimentazioni sui parchi, presto generalizzati al lessico urbano. Da lì il percorso che attraverso città giardino e Ciam giunge, per strade perverse e smottamenti, allo sprawl ‘parassitario’ ed alla incoerente diffusione urbana odierna. Esiti che sono, ammonisce Formato, l’esito del razionalismo illuminista, più che la sua degenerazione. Nel terzo e più breve saggio, Biasco tratta dello sperimentalismo comunitarista basato sulla immaginazione di insediamenti unitari, dai falansteri alle arcologie. Spesso futurismi se non utopie, si tratta quasi sempre di progetti sulla carta, quando non espressamente di progetti letterari, che si soffermano non di rado su futuri negativi. L’autrice ricorda come la fantascienza presenti molti esempi pertinenti, ultimo e non casuale la Zion apocalittica ed ambigua del film Matrix. Con molta insistenza su Soleri e un po’ su Gibson, dunque, il saggio indaga gli immaginari e la proiezione letteraria delle macrostrutture comunitarie. Da lì, cerca di sollecitare la critica ai recenti esperimenti di realizzazione di città autosufficienti (Abu Dhabi, Dongtan, Masdar City); città, appunto, che si presentano come partissero da zero. Manhattan, i sobborghi, la palingenesi futuristico-neocomunitaria – i tre temi del volumetto - sono figure potenti e miti della modernità che lentamente il mondo assorbe e, in parte, assimila pur modificando. Questa natura mitica delle nozioni (Lieto 2013) non è banale; ed uno dei pregi dei saggi è di indagare il campo delle figure dello spazio, il modo in cui le strategie cognitive sedimentate nel tempo distillano rappresentazioni specifiche dei fatti spaziali. In che modo però è compatibile con una lettura genealogica, in che modo queste nozioni agirebbero come dispositivi, a che esiti conducono? A queste domande i tre saggi danno risposte probabilmente diverse, certo con sensibilità e riferimenti non del tutto coincidenti, e forse con sbocchi pure dissimili. L’interferenza con le asimmetrie del potere sta più a cuore della curatrice Lieto. Avvicinare Foucault ad Harvey le permette di collocare negli anni Settanta la riformulazione cruciale del ruolo della pianificazione e dell’architettura, con la rottura dal modernismo e la riscoperta vuoi del vernacolare, del ritorno ai valori tradizionali o dell’apologia dei frammenti. Presto, questa deriva diventerà l’orgia di compiaciuto manierismo che ci assilla da trent’anni e che permane irrisolta “tra disintegrazione della forma e l’avvento della bigness e della città generica” (p.87). Contrastare questa deriva non è facile. Mi sembra di capire che la consapevolezza genealogica consentirebbe al pianificatore di mettere in tensione la ricostruzione del passato rispetto ai possibili presenti; e quindi di cogliere meglio le possibilità di intervenire sui processi che ibridano modelli e strategie cognitivi. Un ruolo evidentemente molto sofisticato destinato a cimentarsi sempre con situazioni rischiose e contingenti (che, aggiungerei io, molti neomarxisti e probabilmente Harvey non condividerebbero). Gli altri due saggi ricostruiscono lo sviluppo dell’immaginario spaziale adoperando materiali più tradizionali provenienti dalla critica artistica e letteraria più che da studi ‘genealogici’. Non è (solo) il nostro immaginario ad essere colonizzato, poco importa se quello quotidiano sedotto da Hollywood o quello professionale ugualmente imbambolato da Microsoft e dalla modellistica. In questo caso la narrazione urbana e l’architettura delle star (Ponzini 2011) si giustificano per la loro proiezione ideologica: sono pedine importanti di un gioco di trasfigurazione. Ma sono importanti come droghe ideologiche, che alimentano allucinazioni tardocapitaliste tanto azzardate da rasentare il delirio (termine spesso evocato). In ogni caso, trionfa una ‘modernità confusa e frammentaria, in cui tutto appare per quello che in realtà non è” (Formato p. 117): la via di uscita diventerebbe allora la ricostruzione di corrispondenze strutturali sia pur minime, un vocabolario elementare che consenta di ricostruire un rapporto con la realtà. Un progetto ambizioso, in conclusione, che si giova de, ed utilizza la mole di studi sul tema dell’americanizzazione e del consumo, oggetto di incessante aggiornamento di interi dipartimenti di cultural studies, oltre che di geografia o planning e di storia dell’architettura. Ma che incontra due critiche di tenore diverso: la prima più perigliosa, riguarda la scelta di operare sulla rilettura di testi critici senza porre mano a fonti dirette, rischiando così di gravitare più sulla storiografia critica piuttosto che su un’analisi realmente genealogica; la seconda a carattere stilistico, riguarda la presenza di discontinuità e ricercatezze argomentative, appesantimenti didascalici, alcune gergalità oscure che non sempre faciliteranno i lettori. P. L. Crosta, L'urbanistica del riformismo: USA 1890-1940, Mazzotta, Milano,1975. L. Lieto, Cross-border mythologies: The problem with traveling planning ideas, Planning Theory, 2013. D. Ponzini, Starchitecture, Scenes, Actors and Spectacles in Contemporary Cities, Umberto Allemandi, Torino, 2011, 144 pp.

Cremaschi, M. (2014). Americans. Città e territorio ai tempi dell’impero. ARCHIVIO DI STUDI URBANI E REGIONALI, 109.

Americans. Città e territorio ai tempi dell’impero

CREMASCHI, Marco
2014-01-01

Abstract

Faticosamente, e da decenni, le scienze sociali cercano di dare senso e direzione al cambiamento delle società europee una volta crollati i blocchi politici, le grandi narrazioni e quella certa, infida e incerta coerenza che la storicità della tradizione assicurava – come abbiamo gramscianamente appreso a declinare – alla cultura, all’ideologia o al territorio. Dagli anni ’70, invece, la velocità, l’incoerenza, la spregiudicatezza insidiano la possibilità di un discorso critico efficace. Guardare agli Stati Uniti è sempre stato uno dei modi per indagare un futuro possibile o la presenza di durevoli relazioni causali. Così, a più riprese, numerosi studiosi si sono cimentati con l’esempio statunitense, anche nel campo della pianificazione e degli studi urbani (uno per tutti: Crosta 1975). Gli autori del volume pensano evidentemente che questa operazione abbia ancora senso oggi che la stessa America pare avviata al tramonto. Su questo punto, l’opportunità di un confronto, si può facilmente convenire. Uno dei motivi per cui gli Stati Uniti costituiscono una sfida durevole, sia storicamente che da un punto di vista teorico, è per il carattere di massa e lo sradicamento spaziale, ambedue espressi dalla celebre icona della frontiera mobile. Ma anche per il più sfuggente e forse più incisivo connotato della malleabile identità politica che, in modo molto contemporaneo, si fonda plasticamente su un’appartenenza acquisita e storicamente costruita più che su quella ricevuta: a differenza degli stati della vecchia Europa, americani non si nasce, ma si diventa. Insomma, gli Stati uniti testimoniano al tempo stesso di una costituzione tipicamente moderna, la frontiera che continuamente ‘melts into air’; e postmoderna, l’identità ibrida che tutto ingloba e a tutto si adatta. Con maggior precisione, il sottotitolo del volume circoscrive questa possibilità nella contradditoria natura dell’impero: “tempo di oppressione, disuguaglianza, violenza [ma anche di] emancipazione, bellezza, creatività” (p. 12). E’ un posizionamento chiaro e opportuno che avvia una descrizione orientata dalla domanda se gli Stati Uniti siano il nostro futuro: una nazione che ha saputo organizzare la società di massa a differenza dell’Europa (e dell’Italia), felici eccezioni (anche teoriche) ma eccezioni destinate a sparire perché terra di desueti confini scritti sulla terra, di identità territorialmente circoscritte, di semantiche intraducibili nel linguaggio universale della globalizzazioni. Saremmo allora americanizzati perché nell’epoca delle masse; ma anche perché parla americano il ‘dispositivo’ che permette di gestirle. E quindi il mondo si massifica e, in parte, si americanizza perché gli USA hanno finora fornito il vocabolario per pensare questo frangente storico. Quando la Cina o gli Emirati si affacciano su questo pozzo vertiginoso, è inevitabile che facciano uso del lessico elaborato da chi per primo ha affrontato il problema. La città contemporanea è espressione diretta (in realtà quasi diretta, molti sono gli spazi di resistenza e di sfrido) della società di massa e della cultura popolare, due caratteri che si affermano e danno il segno al ‘900 globale, al capitalismo del consumo e all’immaginario culturale della globalizzazione. In quel periodo, negli Stati Uniti si elabora e si costruisce un nuovo modello di città, con la fuga delle classi medio-alte verso i sobborghi, la segregazione al centro degli operai dell’industria e, soprattutto, delle masse di immigrati, e la concentrazione del lavoro terziario nei CBD di downtown. Con questa apertura, i tre ricercatori mettono le basi di una ricostruzione genealogica in chiave dichiaratamente foucaultiana, secondo un approccio radicato nel gruppo napoletano. In particolare, nel primo saggio, che da solo compone circa la metà del libro, Lieto ricostruisce la “forma” grattacielo che da Manhattan giunge a caratterizzare gli sviluppi contemporanei delle città in tutto il mondo. Con non pochi excursus e intermezzi, alcuni episodi spaziali sono proposti come passaggi cruciali e contribuiscono a fissare gli elementi di un dispositivo spaziale. Il concepimento del grattacielo, l’interiorizzazione di norme e valori dovuti al rischio di distruzione per gli incendi, la duplice natura del ghetto, la scala metropolitana… Il saggio si dichiara consapevole della eterogeneità dei materiali proposti, che ruotano attorno alla distruzione violenta e alla capacità di rigenerarsi del centro del capitalismo finanziario mondiale, e si propone di risolverla innestando la lettura teorica della sedimentazione del dispositivo sulla interpretazione che la geografia neomarxista statunitense (a sua volta piuttosto eterogenea negli inizi e negli esiti: Castells, Hall, Harvey, Sassen) ha compiuto della globalizzazione urbana. Questo snodo consente di concludere che: “il corpo della metropoli diviene un progetto planetario” per la sua capacità di deterritorializzare e ibridare elementi diversi e disparati nel tempo e nello spazio (p.78). Nel secondo intervento Formato indaga la diffusione dei suburbs pavillonaire e il mito pseudo-naturalistico della dissoluzione urbana. Il tema è il reciproco del precedente. Come Lieto indaga la disseminazione del grattacielo come segno dell’impero, Formato studia la disseminazione del sobborgo. Con una scombussolante differenza: il grattacielo proclama un significato celebrativo, mentre la diffusione urbana proietta “una sterminata disseminazione di equivoci”. Il saggio tratteggia efficacemente la costruzione del mito illuminista del ritorno alla natura e ripercorre la progressiva traduzione di questo negli elementi di tecnica urbanistica dispiegata in seguito nei piani modernisti. Un ruolo significativo è attribuito ad Olmsted e le sue prime sperimentazioni sui parchi, presto generalizzati al lessico urbano. Da lì il percorso che attraverso città giardino e Ciam giunge, per strade perverse e smottamenti, allo sprawl ‘parassitario’ ed alla incoerente diffusione urbana odierna. Esiti che sono, ammonisce Formato, l’esito del razionalismo illuminista, più che la sua degenerazione. Nel terzo e più breve saggio, Biasco tratta dello sperimentalismo comunitarista basato sulla immaginazione di insediamenti unitari, dai falansteri alle arcologie. Spesso futurismi se non utopie, si tratta quasi sempre di progetti sulla carta, quando non espressamente di progetti letterari, che si soffermano non di rado su futuri negativi. L’autrice ricorda come la fantascienza presenti molti esempi pertinenti, ultimo e non casuale la Zion apocalittica ed ambigua del film Matrix. Con molta insistenza su Soleri e un po’ su Gibson, dunque, il saggio indaga gli immaginari e la proiezione letteraria delle macrostrutture comunitarie. Da lì, cerca di sollecitare la critica ai recenti esperimenti di realizzazione di città autosufficienti (Abu Dhabi, Dongtan, Masdar City); città, appunto, che si presentano come partissero da zero. Manhattan, i sobborghi, la palingenesi futuristico-neocomunitaria – i tre temi del volumetto - sono figure potenti e miti della modernità che lentamente il mondo assorbe e, in parte, assimila pur modificando. Questa natura mitica delle nozioni (Lieto 2013) non è banale; ed uno dei pregi dei saggi è di indagare il campo delle figure dello spazio, il modo in cui le strategie cognitive sedimentate nel tempo distillano rappresentazioni specifiche dei fatti spaziali. In che modo però è compatibile con una lettura genealogica, in che modo queste nozioni agirebbero come dispositivi, a che esiti conducono? A queste domande i tre saggi danno risposte probabilmente diverse, certo con sensibilità e riferimenti non del tutto coincidenti, e forse con sbocchi pure dissimili. L’interferenza con le asimmetrie del potere sta più a cuore della curatrice Lieto. Avvicinare Foucault ad Harvey le permette di collocare negli anni Settanta la riformulazione cruciale del ruolo della pianificazione e dell’architettura, con la rottura dal modernismo e la riscoperta vuoi del vernacolare, del ritorno ai valori tradizionali o dell’apologia dei frammenti. Presto, questa deriva diventerà l’orgia di compiaciuto manierismo che ci assilla da trent’anni e che permane irrisolta “tra disintegrazione della forma e l’avvento della bigness e della città generica” (p.87). Contrastare questa deriva non è facile. Mi sembra di capire che la consapevolezza genealogica consentirebbe al pianificatore di mettere in tensione la ricostruzione del passato rispetto ai possibili presenti; e quindi di cogliere meglio le possibilità di intervenire sui processi che ibridano modelli e strategie cognitivi. Un ruolo evidentemente molto sofisticato destinato a cimentarsi sempre con situazioni rischiose e contingenti (che, aggiungerei io, molti neomarxisti e probabilmente Harvey non condividerebbero). Gli altri due saggi ricostruiscono lo sviluppo dell’immaginario spaziale adoperando materiali più tradizionali provenienti dalla critica artistica e letteraria più che da studi ‘genealogici’. Non è (solo) il nostro immaginario ad essere colonizzato, poco importa se quello quotidiano sedotto da Hollywood o quello professionale ugualmente imbambolato da Microsoft e dalla modellistica. In questo caso la narrazione urbana e l’architettura delle star (Ponzini 2011) si giustificano per la loro proiezione ideologica: sono pedine importanti di un gioco di trasfigurazione. Ma sono importanti come droghe ideologiche, che alimentano allucinazioni tardocapitaliste tanto azzardate da rasentare il delirio (termine spesso evocato). In ogni caso, trionfa una ‘modernità confusa e frammentaria, in cui tutto appare per quello che in realtà non è” (Formato p. 117): la via di uscita diventerebbe allora la ricostruzione di corrispondenze strutturali sia pur minime, un vocabolario elementare che consenta di ricostruire un rapporto con la realtà. Un progetto ambizioso, in conclusione, che si giova de, ed utilizza la mole di studi sul tema dell’americanizzazione e del consumo, oggetto di incessante aggiornamento di interi dipartimenti di cultural studies, oltre che di geografia o planning e di storia dell’architettura. Ma che incontra due critiche di tenore diverso: la prima più perigliosa, riguarda la scelta di operare sulla rilettura di testi critici senza porre mano a fonti dirette, rischiando così di gravitare più sulla storiografia critica piuttosto che su un’analisi realmente genealogica; la seconda a carattere stilistico, riguarda la presenza di discontinuità e ricercatezze argomentative, appesantimenti didascalici, alcune gergalità oscure che non sempre faciliteranno i lettori. P. L. Crosta, L'urbanistica del riformismo: USA 1890-1940, Mazzotta, Milano,1975. L. Lieto, Cross-border mythologies: The problem with traveling planning ideas, Planning Theory, 2013. D. Ponzini, Starchitecture, Scenes, Actors and Spectacles in Contemporary Cities, Umberto Allemandi, Torino, 2011, 144 pp.
2014
Cremaschi, M. (2014). Americans. Città e territorio ai tempi dell’impero. ARCHIVIO DI STUDI URBANI E REGIONALI, 109.
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