Les droits de l’homme et la société globale cerca di ricostruire e cogliere i processi di unificazione del mondo e il formarsi di un comune sentire dell’umanità: la convinzione, maturata in diversi contesti culturali, dell’unità del genere umano e dell’esistenza di diritti umani inalienabili. La ricerca dell’unità del genere umano non implica, come talvolta è successo nel passato, la negazione delle differenze; anzi, essa mette in luce i tratti comuni delle organizzazioni sociali e politiche da cui possono scaturire le condizioni di possibilità del riconoscimento e dell’affermazione delle differenze individuali. L’ipotesi di fondo del volume è che la società globale possa costituire il contesto per l’affermazione dei diritti umani. Insieme alla rete mondiale di relazioni tra gli uomini si va formando la consapevolezza che quelle relazioni debbono essere regolate giuridicamente. I tentativi di regolazione si ispirano all’idea che esistano dei diritti inalienabili propri di ogni individuo, indipendentemente dal suo luogo di nascita, dalle sue condizioni economiche e culturali, dalle sue condizioni e preferenze sessuali, dalle sue idee politiche, e così via. L’idea dell’unità del genere umano non è nuova. Nella nostra tradizione culturale la filosofia greca, gli stoici in particolare, il cristianesimo e l’illuminismo ne hanno elaborato la teoria e, talvolta, la pratica. Il fatto nuovo ora è che si va formando un contesto geopolitico nel quale i diritti umani possono trovare una più generale e sistematica applicazione. Questa affermazione può apparire ottimistica e, guardando a cosa succede nel mondo, non si può nascondere che la violazione dei diritti umani sia piuttosto estesa. Ma il riconoscimento della violazione dei diritti umani implica una coscienza che i rapporti tra società, culture e stati dovrebbero essere regolati diversamente. Non solo: questa coscienza opera anche nella valutazione delle relazioni all’interno delle società, degli stati e delle civiltà. Se non sono - come ancora non sono - una concreta realtà, i diritti umani costituiscono tuttavia un orizzonte culturale per la valutazione dell’esistenza umana, per giudicare i comportamenti delle istituzioni e degli individui e, in fondo, cosa è degno o indegno dell’essere umano. Essi costituiscono l’orizzonte di senso entro il quale sempre più persone pensano e vivono la propria vita. I temi del volume sono sostanzialmente tre: i processi di unificazione del mondo e le sue immagini; il lento formarsi di una concezione universalistica dell’uomo, che si esprime nel cosmopolitismo antico e nuovo; una proposta di lavoro per i sociologi, che metta al centro delle proprie analisi la società globale. 2. Struttura dell’Universo e forma della Terra, ovvero Imago mundi Nella lunga storia della imago mundi si incontrano diversi modelli di Universo. Come sappiamo, talvolta la Terra occupa una posizione centrale tal altra una posizione periferica. Una parte molto rilevante della ricerca sull’Universo riguarda la forma della Terra. Le questioni fisiche (elementi, forma, posizione) sono spesso viste mediante le forme delle relazioni tra i diversi abitatori del pianeta. La geografia, in altri termini, non è indipendente dalla politica. La forma del mondo e della Terra è un intreccio di dati di osservazione e di modelli culturali. Ogni cultura, dalla più semplice alla più complessa, produce la sua immagine del mondo. Tra le grandi culture e tra le civiltà esiste una competizione che si esprime anche attraverso le immagini del mondo. Rappresentare il mondo è un modo per “ordinare”, per stabilire una gerarchia tra individui, società, culture. Un punto nodale di questa “battaglia per le immagini” riguarda la posizione di ogni paese e di ogni civiltà; nel nostro caso la posizione e il ruolo dell’Europa. Per alcuni secoli (due o forse tre) l’Europa ha costruito la propria immagine dell’Universo e della Terra nella quale riservava a se stessa il ruolo di civiltà egemone e superiore. Ora invece è in corso una revisione che tende a “provincializzare” l’Europa, a criticare e distruggere il suo senso di superiorità, a restituirle il ruolo marginale per tanto tempo occupato nella storia dell’umanità . Se nell’analisi della storia e delle immagini del mondo si adotta una prospettiva globale, secondo il modello della world history (Ponting, 2001), la posizione dell’Europa appare veramente marginale. Infatti, se nella “narrazione” si adotta il punto di vista eurasiatico – cioè, se si considera ciò che avviene nel continente eurasiatico-, il ruolo dell’Europa appare molto modesto, sia dal punto di vista spaziale-geografico, sia dal punto di vista geo-politico. L’Europa è una piccola penisola del continente euroasiatico, il luogo dove tramonta il sole, la “periferia” dell’Eurasia. La civiltà viene dall’Oriente. Nel suo percorso verso Occidente essa incorpora prima l’Egeo, poi l’Italia, e il Mediterraneo (Ponting, 2001, p. 171-177; p. 226-230). Di qui, poi, sale verso l’Europa occidentale e verso le isole britanniche. Questo percorso della civiltà sarebbe confermato da una più che millenaria dipendenza dei popoli del Mediterraneo e dell’Europa da prodotti delle manifatture cinesi e indiane arrivati in Occidente mediante le vie della seta e delle spezie. Poiché l’Occidente greco, romano ed europeo non poteva scambiare i suoi prodotti (grezzi e privi di valore) con i prodotti eleganti e raffinati delle manifatture orientali, doveva pagare le merci con metalli preziosi, soprattutto oro e argento. Oro, dunque, in cambio di vestiti di seta, di vasellame prezioso, di oggetti di ornamento per uomini e donne delle classi superiori mediterranee ed europee (Ponting, 2001, p. 256-7). Questo, in fondo, fino a circa il 1750 d. C. Se questa rappresentazione del processo storico è vera, occorre spiegare come mai la periferia della civiltà possa diventarne il centro, anche se contrastato, oppure uno dei centri, contrastato o riconosciuto che sia. In particolare, se si vede nella rappresentazione che mette al centro il mondo greco e romano e poi l’Europa un’espressione dell’orgoglio o della presunzione “greca”, occorre poi spiegare come mai il mondo greco-romano e occidentale, da area periferica, abbia potuto giocare un ruolo rilevante, sia nell’antichità (Atene e Roma, per dirla in termini simbolici), sia nella modernità. E, in via supplementare, occorre spiegare pure come i grandi imperi della Cina e dell’India, da centri del mondo, ne siano divenuti periferie. Il punto di vista eurasiatico non è in grado di spiegare perché il mondo mediterraneo ed europeo, non avendo dato alcun contributo originale alla storia dell’umanità, dal 1750 d. C. in poi, sia divenuto dominante nella scena globale. Probabilmente, una teoria multidimensionale della società, che ponesse in rilievo gli aspetti culturali (e non condannarli come espressione di mero “orgoglio”) avrebbe potuto condurre ad una interpretazione più condivisibile del processo della storia mondiale. Il problema, infatti, non è tanto quello di affermare o ridurre il peso dell’una o dell’altra civiltà, dell’una o dell’altra tradizione culturale, ma di seguire il formarsi di una comune umanità. Da questo punto di vista, adottare una prospettiva globale può fare emergere sia i tratti comuni delle organizzazioni umane, sia le differenze dovute ai contesti ambientali e alle strategie individuate per risolvere il problema comune della sopravvivenza. 3. Il conflitto delle immagini del mondo e l’identità europea Il conflitto delle rappresentazioni del mondo, in verità, è antico. Nel suo stupendo saggio giovanile, Globus. Per una teoria storico-universale dello spazio, Franz Rosenzweig vede competere due immagini dell’Universo e della Terra, quella “omerica” e quella “biblica”. L’immagine omerica rappresenta la Terra come «un grande mare interno circondato da coste, e tutt’intorno da una sottile striscia di Oceano». Questa immagine del mondo, però, non è “la più antica”. Più antica è l’immagine biblica. «In questa immagine del mondo non c’è un mare che ribolle al centro, ma un’enorme terraferma che da esso emerge, una terraferma sulla quale sorgono e tramontano i grandi imperi, sulla quale si scaricano turbinosamente le tempeste nordiche provocate dai popoli nomadi, e sulla quale si abbattono tuonando gli uragani generati dalle tensioni tra le potenze. Tutto il mare intorno, che batte le coste di questa massa compatta di terraferma è Oceano – non quindi il sottile anello che abbraccia il mondo della visione omerica, ma un immenso indeterminato» (Rosenzweig, 1984, p. 84). L’immagine omerica in fondo non sarebbe altro che la trasposizione del Mediterraneo a modello della Terra, così come il modello biblico sarebbe la trasposizione delle visioni eurasiatiche a modello generale del mondo. Dal punto di vista storico Rosenzweig ha ragione. L’immagine “biblica”, appartenente alla famiglia eurasiatica, è più antica dell’immagine omerica e greca del mondo. Egli mette in luce anche le differenze tra le due immagini. Il mare, thalatta, come già aveva visto Hegel – a cui sembra ispirarsi Rosenzweig – è l’elemento specifico dell’immagine del mondo greca ed europea. Nell’immagine biblica ed asiatica il mare è l’indistinto, il limite. «Proprio il rapporto con il mare è importante in Europa… Il mare scinde le terre, ma unisce gli uomini. Nel mare risiede quell’uscire da sé, assolutamente peculiare, che manca alla vita asiatica … Per l’Asia il mare non ha alcun significato» (Hegel,1822-23, Filosofia della storia universale, p. 103). Certamente, l’immagine del mondo mediterraneo ed europeo come civiltà aperte e, per converso, l’immagine biblica e “asiatica” come espressione di civiltà chiuse, corrispondono ad una costruzione dell’identità greca ed europea. Infatti, le immagini non corrispondono ai processi storici concreti. Le civiltà asiatiche (Cina, India, Persia) sono state egemoniche su territori sconfinati. Il loro movimento, la loro apertura ha prodotto grandi imperi territoriali, terrestri. La Cina, inoltre, avrebbe potuto unificare il mondo un poco prima dell’Europa, se è vera la vicenda del grande piano di ricerca condotto dalle flotte cinesi nel XV secolo . E’ però incontestabile che, costruendo un impero sul Mediterraneo, la Grecia antica e, soprattutto, Roma, abbiano dato un contributo essenziale alla geopolitica mondiale. Mentre gli asiatici (Cina e Persia) mantengono un atteggiamento di noncuranza, se non di disprezzo verso le terre d’Occidente, Roma allarga i confini del mondo verso nord, verso il grande mare del nord: l’Oceano delle isole britanniche. Rosenzweig attribuisce a Giulio Cesare questo merito. La sua conquista della Gallia e delle isole britanniche ha aperto al mondo un altro percorso. Se i suoi progetti di espansione nell’Europa dell’est non fossero stati interrotti, l’impero greco-romano avrebbe avuto forse le stesse dimensioni degli imperi cinesi e indiani. In un’altra fase della storia è ancora l’Europa, sostiene Rosenzweig, ad allargare i confini del mondo. L’errore di Colombo conteneva in fondo una verità. La sua via per le Indie era nello stesso tempo giusta e sbagliata. Il presupposto è che dall’Europa all’India non vi fosse che un Oceano, e che le due sponde non fossero altro che le coste di un unico mare. C. Schmitt, che scrive alcuni anni dopo il giovane Rosenzweig, senza nominarlo, sembra dipendere molto dalle sue posizioni. Come Rosenzweig, Schmitt vede nella civiltà biblica una civiltà terrestre e nella thalatta la specificità greca. In un punto ancora più nevralgico la sua posizione sembra convergere con quella di Rosenzweig: nel considerare terra e mare come una grande, unica, superficie su cui può sorgere una potenza mondiale. Una volta unificato il mondo, dal punto di vista della concezione geografica, si può unificarlo anche dal punto di vista politico. Questo disegno persegue la Gran Bretagna e riesce a costruire il suo impero. Per quanto si vogliano recepire le contestazioni sulla collocazione marginale dell’Europa nella storia mondiale, non si può tuttavia non riconoscere il suo contributo specifico alla storia dell’umanità. Tale contributo consiste nella formazione della consapevolezza della unicità del mondo. Vi è, cioè, “Un solo cielo, Una sola terra”, come dice Rosenzweig. Tutto questo, però, non basta. Se la politica lavora “su un planisfero”, su una superficie piana, «questo planisfero non è ancora disegnato sul globo … esiste un solo mondo, un solo mare, le cui aree sono in comunicazione, ma questo mondo ha ancora centro ed estremità, le linee non ritornano ancora a congiungersi tutte, la terra non è ancora una sfera» (Rosenzweig, 1984, p. 111). L’Europa, secondo la ricostruzione di Rosenzweig, a questo punto è divenuta il “punto centrale del mondo, verso il quale guardano le estremità di esso. Ma ancora esistono ‘estremità’: un mondo che è più antico dell’Europa e che non è rinato da essa, e uno che è più giovane e che perciò pretende di essere più cresciuto di essa: la coscienza senile dell’Asia, quella infantile dell’America» (Rosenzweig, 1984, p. 111). Quest’opera in fondo è ancora incompiuta. «La storia ha fatto propria l’impresa di Colombo e di Vasco de Gama, ma quella di Magellano, che le collega entrambe, ancora oggi non è stata portata a compimento. Già spumeggiano le acque intorno alle tre coste dell’Africa, confluendo insieme in un unico mare. Ma la parte asciutta della terra non si è ancora chiusa nell’unica sfera. Non ancora dimora l’umanità in un’unica casa. Non ancora è l’Europa l’anima del mondo» (Rosenzweig, 1984, p. 112; corsivo mio). Certamente, la prospettiva di Rosenzweig è “eurocentrica” ed assegna all’Europa il ruolo di “anima del mondo”, sorprendentemente più al modo stoico che non ebraico. La ricostruzione della storia dello spazio – o, per meglio dire, delle sue rappresentazioni – coglie il movimento dinamico, il divenire “centro” da parte del mondo greco-romano e dell’Europa. Non solo ma descrive (e siamo nel 1917) lo scenario essenziale del XX e del XXI secolo. Durante questo periodo la parte asciutta della terra, se ancora “non si è chiusa in un'unica sfera”, diviene sempre più un unico mondo, un’unica società. I processi sono andati diversamente da quanto sperava Rosenzweig, che, scrivendo durante la prima guerra mondiale, sognava un mondo più armonico, rigenerato dall’Europa. Il XX secolo è stato “giocato” invece intorno alla lotta per l’egemonia tra le grandi potenze europee. Il risultato è stato la perdita di rilevanza di tutta l’Europa proprio rispetto alle due potenze citate da Rosenzweig: quella del passato, la Cina, certamente non rinata dal soffio culturale europeo; e l’America, nata da una costola dell’Europa. Una più attenta ricognizione, inoltre, deve registrare la comparsa di attori nuovi, non europei, sulla scena globale. L’Europa, al tempo di Rosenzweig ancora il “punto centrale del mondo”, sembra tornata ora “periferia”, anche se non più degli imperi asiatici, come nel passato, ma del nuovo mondo da essa generato, l’America. Ora si cerca affannosamente di recuperare una posizione e un ruolo nella scena globale, con incertezze, passi avanti e bruschi ritorni indietro. Qualcuno, ad esempio la Gran Bretagna, non ha ancora maturato la convinzione che l’Europa è il proprio orizzonte; qualche altro, ad esempio la Francia, vorrebbe l’Europa e, nello stesso tempo, mantenere lo stato-nazione che le ha dato la grandeur; i nuovi arrivati, ad esempio Polonia e Cekia, vorrebbero forse per la prima volta giocare il ruolo di “grandi nazioni”. L’apertura dell’Europa verso est, per ora più dal punto di vista economico e geografico che politico e culturale, potrebbe portare a realizzare il disegno imperiale da Rosenzweig attribuito a Giulio Cesare. In ogni caso nel XXI secolo la sfida per l’Europa è divenire una grande potenza, integrando in un disegno politico tutto il continente, oppure adeguarsi al suo ruolo di “periferia” del mondo. Questa condizione sarebbe ancora più dolorosa perché oggi i centri sono più numerosi e si corre il rischio di divenire periferia non del “punto centrale” del mondo (che non esiste più), ma di uno dei vari pretendenti alla centralità. Questo breve excursus storico sulla linea interpretativa di Rosenzweig ci permette di trarre la conclusione secondo la quale l’Europa non è stata solo “provincia occidentale” degli imperi orientali, ma anche luogo della costruzione della consapevolezza dell’unità del genere umano. Questa conclusione diventa più chiara se svolgiamo alcune altre brevi considerazioni storico-culturali. Se prendiamo la caratterizzazione hegeliana della storia dello spirito, ma non la sua struttura evoluzionista né tanto meno la sua impronta etnica, possiamo avere un’idea del contributo del mondo greco-romano ed europeo alla formazione dell’unità del genere umano. Nelle Lezioni di Filosofia della storia Hegel vede «la storia del mondo [come] il progresso nella coscienza della libertà: un progresso che noi dobbiamo riconoscere nella sua necessaria natura» (Hegel, 1830-31, p. 47). I momenti essenziali di questo processo, che per Hegel è anche un “progresso”, sono i seguenti: «Gli Orientali non sanno ancora che lo spirito, o l'uomo come tale, è libero in sé. Non sapendolo, non lo sono. Essi sanno che uno è libero; ma appunto per ciò questa libertà è arbitrio, barbarie, gravezza della passione ... Quest'uno è perciò solo un despota, non un uomo libero, un uomo. Presso i Greci, per primi, è sorta la coscienza della libertà, e perciò essi sono stati liberi; ma essi, come anche i Romani, sapevano solo che alcuni sono liberi, non l'uomo come tale... Solo le nazioni germaniche sono giunte nel cristianesimo alla coscienza che l'uomo come uomo è libero» (Hegel, 1830-1831, p. 46) . Hegel attribuisce alle nazioni germaniche questo merito, ma ciò non è affatto vero. Il pensiero che l’uomo come tale sia libero viene da lontano. I filosofi stoici, già prima del cristianesimo, affermano l’unità del genere umano e, dunque, la illegittimità della schiavitù. Secondo la ricostruzione del filosofo inglese Baldry (1965), l’idea della libertà dell’uomo come tale, o di ciò che egli chiama l’unità del genere umano, viene elaborata nella cultura greca nel primo millennio a. C.. In effetti, la schiavitù è stata giustificata, sia nell’antichità, sia in tempi più recenti, con l’ipotesi della diversità del genere umano. La natura avrebbe destinato alcuni uomini a servirne altri. Inoltre, poiché questi stessi servitori non sono in grado di governarsi, i loro padroni devono occuparsi di loro. L’idea opposta, secondo la quale la natura non ha destinato nessuno uomo ad essere schiavo di un altro, comporta l’idea dell’uguaglianza di tutti gli uomini. Nello stoicismo questa posizione è rafforzata dal concetto della fratellanza universale e dalla convinzione dell’esistenza di un logos universale di cui ognuno sarebbe in possesso. Inoltre, qualcuno (Cicerone) aggiunge anche l’ipotesi che l’uomo conterrebbe una scintilla di divinità. Questa modo di intendere l’umanità incontra nel suo cammino la concezione biblica dell’uomo e, in particolare, l’idea secondo la quale Dio avrebbe creato l’uomo a sua immagine e somiglianza. La sintesi di entrambe queste posizioni sarebbe contenuta nel cristianesimo. Queste concezioni dell’uomo non nascono dal nulla. Secondo Hegel, «per i greci e i romani in Oriente è sorto il mattino di un mondo bello; così avviene anche per il mondo cristiano, il cui padre naturale è l’imbrunire, l’Occidente d’Europa … Ma il Levante, l’Oriente, è suo padre in un senso superiore, è il suo padre spirituale» (Hege1, 1822-23, p. 477) . L’Oriente, dunque, avrebbe “prestato” un patrimonio immenso all’Occidente. Secondo la tesi di R. Brague, questa logica sarebbe il tratto distintivo dell’Europa. Il modello romano, a cui egli riconduce l’identità europea, sarebbe caratterizzato dalla rielaborazione di elementi di altre culture e di altre civiltà. Roma avrebbe rielaborato la cultura greca. L’Europa seguirebbe il modello romano non tanto per i singoli contenuti ma per la logica della sua elaborazione culturale. Già Hegel, tuttavia, aveva messo in luce questa logica: «Noi siamo stati formati dai romani, questi lo sono stati dai greci. Ma ciò che abbiamo ricevuto è anche un qualcosa di estraneo a noi e nella misura in cui ce ne appropriamo creiamo anche un che di nuovo». Ma Hegel, a differenza di Brague, conferisce a questa logica un tratto universale e non solo tipico degli europei. «E’ questo il rapporto essenziale della cultura di tutti i popoli. La cultura greca presuppone già anche essa stessa a sua volta una cultura» (Hegel, 1822-23, p. 359; corsivo mio). «Un presupposto, un qualcosa di estraneo, è altrettanto necessario quanto una rielaborazione del medesimo, la quale percorra i suoi stadi autonomi» (Hegel, 1822-23, p. 360). Non vi è dunque alcuna boria all’origine della coscienza dell’identità europea. Piuttosto la consapevolezza che, come avviene per ogni altro popolo, la nostra identità si costruisce nella relazione con l’altro, facendo propri aspetti della sua cultura e rielaborandoli secondo la nostra prospettiva. Non solo la logica dunque, come vorrebbe Brague, caratterizza l’identità europea, ma i contenuti da essa elaborati. Da questo punto di vista, allora, l’identità europea si esprime soprattutto nella teoria dei diritti umani. La teoria dell’unità del genere umano è il suo patrimonio per il futuro e il contributo che essa porta alla storia universale. Questa convinzione non implica una concezione armoniosa delle vicende europee. La storia europea non è stata improntata alla fratellanza ma percorsa da guerre e conflitti continui tra stati, tra nazioni e, spesso, ancora da più cruenti conflitti di classe e di religione all’interno dei diversi stati-nazione. Nonostante – o, forse, per un’astuzia della ragione, grazie a - questa storia, si è prodotto un patrimonio che la trascende. Il dialogo, la negoziazione paziente, la mediazione degli interessi hanno aperto nuove prospettive. La costruzione dell’Europa comporta, da un lato, la rottura con la sua storia violenta e, dall’altro, la valorizzazione del suo patrimonio culturale. La critica svolta da altri, non sempre innocenti, va pertanto assunta per la parte che incita alla rottura con la logica del puro dominio e va accompagnata con la proposta – e la richiesta – perché tutti si orientino al dialogo e al riconoscimento dell’identità dell’altro. La prospettiva della società globale, dalla quale si propone di guardare alla storia mondiale e, in particolare, alla storia europea, non è una prospettiva ingenua. Dietro internet non corrono solo fiabe a lieto fine. La possibilità di accesso alla documentazione resa oggi possibile dalle istituzioni mondiali permette alle scienze sociali di elaborare una prospettiva critica verso lo stato del mondo. Se i diritti umani e l’unità del genere umano non sono pura retorica, occorre mettere mano alla correzione delle enormi disparità nella distribuzione delle risorse tra gli uomini. La questione non riguarda solo la divisione tra paesi ricchi e paesi poveri. L’osservazione dei dati dimostra invece che la distribuzione delle risorse è ineguale sia a livello mondiale, sia nelle diverse aree del mondo, sia all’interno di ogni paese, del mondo ricco, del mondo povero e dei paesi in via di sviluppo. -

Cotesta, V. (2009). Les droits de l'homme et la société globale. PARIS : L'Harmattan.

Les droits de l'homme et la société globale

COTESTA, Vittorio
2009-01-01

Abstract

Les droits de l’homme et la société globale cerca di ricostruire e cogliere i processi di unificazione del mondo e il formarsi di un comune sentire dell’umanità: la convinzione, maturata in diversi contesti culturali, dell’unità del genere umano e dell’esistenza di diritti umani inalienabili. La ricerca dell’unità del genere umano non implica, come talvolta è successo nel passato, la negazione delle differenze; anzi, essa mette in luce i tratti comuni delle organizzazioni sociali e politiche da cui possono scaturire le condizioni di possibilità del riconoscimento e dell’affermazione delle differenze individuali. L’ipotesi di fondo del volume è che la società globale possa costituire il contesto per l’affermazione dei diritti umani. Insieme alla rete mondiale di relazioni tra gli uomini si va formando la consapevolezza che quelle relazioni debbono essere regolate giuridicamente. I tentativi di regolazione si ispirano all’idea che esistano dei diritti inalienabili propri di ogni individuo, indipendentemente dal suo luogo di nascita, dalle sue condizioni economiche e culturali, dalle sue condizioni e preferenze sessuali, dalle sue idee politiche, e così via. L’idea dell’unità del genere umano non è nuova. Nella nostra tradizione culturale la filosofia greca, gli stoici in particolare, il cristianesimo e l’illuminismo ne hanno elaborato la teoria e, talvolta, la pratica. Il fatto nuovo ora è che si va formando un contesto geopolitico nel quale i diritti umani possono trovare una più generale e sistematica applicazione. Questa affermazione può apparire ottimistica e, guardando a cosa succede nel mondo, non si può nascondere che la violazione dei diritti umani sia piuttosto estesa. Ma il riconoscimento della violazione dei diritti umani implica una coscienza che i rapporti tra società, culture e stati dovrebbero essere regolati diversamente. Non solo: questa coscienza opera anche nella valutazione delle relazioni all’interno delle società, degli stati e delle civiltà. Se non sono - come ancora non sono - una concreta realtà, i diritti umani costituiscono tuttavia un orizzonte culturale per la valutazione dell’esistenza umana, per giudicare i comportamenti delle istituzioni e degli individui e, in fondo, cosa è degno o indegno dell’essere umano. Essi costituiscono l’orizzonte di senso entro il quale sempre più persone pensano e vivono la propria vita. I temi del volume sono sostanzialmente tre: i processi di unificazione del mondo e le sue immagini; il lento formarsi di una concezione universalistica dell’uomo, che si esprime nel cosmopolitismo antico e nuovo; una proposta di lavoro per i sociologi, che metta al centro delle proprie analisi la società globale. 2. Struttura dell’Universo e forma della Terra, ovvero Imago mundi Nella lunga storia della imago mundi si incontrano diversi modelli di Universo. Come sappiamo, talvolta la Terra occupa una posizione centrale tal altra una posizione periferica. Una parte molto rilevante della ricerca sull’Universo riguarda la forma della Terra. Le questioni fisiche (elementi, forma, posizione) sono spesso viste mediante le forme delle relazioni tra i diversi abitatori del pianeta. La geografia, in altri termini, non è indipendente dalla politica. La forma del mondo e della Terra è un intreccio di dati di osservazione e di modelli culturali. Ogni cultura, dalla più semplice alla più complessa, produce la sua immagine del mondo. Tra le grandi culture e tra le civiltà esiste una competizione che si esprime anche attraverso le immagini del mondo. Rappresentare il mondo è un modo per “ordinare”, per stabilire una gerarchia tra individui, società, culture. Un punto nodale di questa “battaglia per le immagini” riguarda la posizione di ogni paese e di ogni civiltà; nel nostro caso la posizione e il ruolo dell’Europa. Per alcuni secoli (due o forse tre) l’Europa ha costruito la propria immagine dell’Universo e della Terra nella quale riservava a se stessa il ruolo di civiltà egemone e superiore. Ora invece è in corso una revisione che tende a “provincializzare” l’Europa, a criticare e distruggere il suo senso di superiorità, a restituirle il ruolo marginale per tanto tempo occupato nella storia dell’umanità . Se nell’analisi della storia e delle immagini del mondo si adotta una prospettiva globale, secondo il modello della world history (Ponting, 2001), la posizione dell’Europa appare veramente marginale. Infatti, se nella “narrazione” si adotta il punto di vista eurasiatico – cioè, se si considera ciò che avviene nel continente eurasiatico-, il ruolo dell’Europa appare molto modesto, sia dal punto di vista spaziale-geografico, sia dal punto di vista geo-politico. L’Europa è una piccola penisola del continente euroasiatico, il luogo dove tramonta il sole, la “periferia” dell’Eurasia. La civiltà viene dall’Oriente. Nel suo percorso verso Occidente essa incorpora prima l’Egeo, poi l’Italia, e il Mediterraneo (Ponting, 2001, p. 171-177; p. 226-230). Di qui, poi, sale verso l’Europa occidentale e verso le isole britanniche. Questo percorso della civiltà sarebbe confermato da una più che millenaria dipendenza dei popoli del Mediterraneo e dell’Europa da prodotti delle manifatture cinesi e indiane arrivati in Occidente mediante le vie della seta e delle spezie. Poiché l’Occidente greco, romano ed europeo non poteva scambiare i suoi prodotti (grezzi e privi di valore) con i prodotti eleganti e raffinati delle manifatture orientali, doveva pagare le merci con metalli preziosi, soprattutto oro e argento. Oro, dunque, in cambio di vestiti di seta, di vasellame prezioso, di oggetti di ornamento per uomini e donne delle classi superiori mediterranee ed europee (Ponting, 2001, p. 256-7). Questo, in fondo, fino a circa il 1750 d. C. Se questa rappresentazione del processo storico è vera, occorre spiegare come mai la periferia della civiltà possa diventarne il centro, anche se contrastato, oppure uno dei centri, contrastato o riconosciuto che sia. In particolare, se si vede nella rappresentazione che mette al centro il mondo greco e romano e poi l’Europa un’espressione dell’orgoglio o della presunzione “greca”, occorre poi spiegare come mai il mondo greco-romano e occidentale, da area periferica, abbia potuto giocare un ruolo rilevante, sia nell’antichità (Atene e Roma, per dirla in termini simbolici), sia nella modernità. E, in via supplementare, occorre spiegare pure come i grandi imperi della Cina e dell’India, da centri del mondo, ne siano divenuti periferie. Il punto di vista eurasiatico non è in grado di spiegare perché il mondo mediterraneo ed europeo, non avendo dato alcun contributo originale alla storia dell’umanità, dal 1750 d. C. in poi, sia divenuto dominante nella scena globale. Probabilmente, una teoria multidimensionale della società, che ponesse in rilievo gli aspetti culturali (e non condannarli come espressione di mero “orgoglio”) avrebbe potuto condurre ad una interpretazione più condivisibile del processo della storia mondiale. Il problema, infatti, non è tanto quello di affermare o ridurre il peso dell’una o dell’altra civiltà, dell’una o dell’altra tradizione culturale, ma di seguire il formarsi di una comune umanità. Da questo punto di vista, adottare una prospettiva globale può fare emergere sia i tratti comuni delle organizzazioni umane, sia le differenze dovute ai contesti ambientali e alle strategie individuate per risolvere il problema comune della sopravvivenza. 3. Il conflitto delle immagini del mondo e l’identità europea Il conflitto delle rappresentazioni del mondo, in verità, è antico. Nel suo stupendo saggio giovanile, Globus. Per una teoria storico-universale dello spazio, Franz Rosenzweig vede competere due immagini dell’Universo e della Terra, quella “omerica” e quella “biblica”. L’immagine omerica rappresenta la Terra come «un grande mare interno circondato da coste, e tutt’intorno da una sottile striscia di Oceano». Questa immagine del mondo, però, non è “la più antica”. Più antica è l’immagine biblica. «In questa immagine del mondo non c’è un mare che ribolle al centro, ma un’enorme terraferma che da esso emerge, una terraferma sulla quale sorgono e tramontano i grandi imperi, sulla quale si scaricano turbinosamente le tempeste nordiche provocate dai popoli nomadi, e sulla quale si abbattono tuonando gli uragani generati dalle tensioni tra le potenze. Tutto il mare intorno, che batte le coste di questa massa compatta di terraferma è Oceano – non quindi il sottile anello che abbraccia il mondo della visione omerica, ma un immenso indeterminato» (Rosenzweig, 1984, p. 84). L’immagine omerica in fondo non sarebbe altro che la trasposizione del Mediterraneo a modello della Terra, così come il modello biblico sarebbe la trasposizione delle visioni eurasiatiche a modello generale del mondo. Dal punto di vista storico Rosenzweig ha ragione. L’immagine “biblica”, appartenente alla famiglia eurasiatica, è più antica dell’immagine omerica e greca del mondo. Egli mette in luce anche le differenze tra le due immagini. Il mare, thalatta, come già aveva visto Hegel – a cui sembra ispirarsi Rosenzweig – è l’elemento specifico dell’immagine del mondo greca ed europea. Nell’immagine biblica ed asiatica il mare è l’indistinto, il limite. «Proprio il rapporto con il mare è importante in Europa… Il mare scinde le terre, ma unisce gli uomini. Nel mare risiede quell’uscire da sé, assolutamente peculiare, che manca alla vita asiatica … Per l’Asia il mare non ha alcun significato» (Hegel,1822-23, Filosofia della storia universale, p. 103). Certamente, l’immagine del mondo mediterraneo ed europeo come civiltà aperte e, per converso, l’immagine biblica e “asiatica” come espressione di civiltà chiuse, corrispondono ad una costruzione dell’identità greca ed europea. Infatti, le immagini non corrispondono ai processi storici concreti. Le civiltà asiatiche (Cina, India, Persia) sono state egemoniche su territori sconfinati. Il loro movimento, la loro apertura ha prodotto grandi imperi territoriali, terrestri. La Cina, inoltre, avrebbe potuto unificare il mondo un poco prima dell’Europa, se è vera la vicenda del grande piano di ricerca condotto dalle flotte cinesi nel XV secolo . E’ però incontestabile che, costruendo un impero sul Mediterraneo, la Grecia antica e, soprattutto, Roma, abbiano dato un contributo essenziale alla geopolitica mondiale. Mentre gli asiatici (Cina e Persia) mantengono un atteggiamento di noncuranza, se non di disprezzo verso le terre d’Occidente, Roma allarga i confini del mondo verso nord, verso il grande mare del nord: l’Oceano delle isole britanniche. Rosenzweig attribuisce a Giulio Cesare questo merito. La sua conquista della Gallia e delle isole britanniche ha aperto al mondo un altro percorso. Se i suoi progetti di espansione nell’Europa dell’est non fossero stati interrotti, l’impero greco-romano avrebbe avuto forse le stesse dimensioni degli imperi cinesi e indiani. In un’altra fase della storia è ancora l’Europa, sostiene Rosenzweig, ad allargare i confini del mondo. L’errore di Colombo conteneva in fondo una verità. La sua via per le Indie era nello stesso tempo giusta e sbagliata. Il presupposto è che dall’Europa all’India non vi fosse che un Oceano, e che le due sponde non fossero altro che le coste di un unico mare. C. Schmitt, che scrive alcuni anni dopo il giovane Rosenzweig, senza nominarlo, sembra dipendere molto dalle sue posizioni. Come Rosenzweig, Schmitt vede nella civiltà biblica una civiltà terrestre e nella thalatta la specificità greca. In un punto ancora più nevralgico la sua posizione sembra convergere con quella di Rosenzweig: nel considerare terra e mare come una grande, unica, superficie su cui può sorgere una potenza mondiale. Una volta unificato il mondo, dal punto di vista della concezione geografica, si può unificarlo anche dal punto di vista politico. Questo disegno persegue la Gran Bretagna e riesce a costruire il suo impero. Per quanto si vogliano recepire le contestazioni sulla collocazione marginale dell’Europa nella storia mondiale, non si può tuttavia non riconoscere il suo contributo specifico alla storia dell’umanità. Tale contributo consiste nella formazione della consapevolezza della unicità del mondo. Vi è, cioè, “Un solo cielo, Una sola terra”, come dice Rosenzweig. Tutto questo, però, non basta. Se la politica lavora “su un planisfero”, su una superficie piana, «questo planisfero non è ancora disegnato sul globo … esiste un solo mondo, un solo mare, le cui aree sono in comunicazione, ma questo mondo ha ancora centro ed estremità, le linee non ritornano ancora a congiungersi tutte, la terra non è ancora una sfera» (Rosenzweig, 1984, p. 111). L’Europa, secondo la ricostruzione di Rosenzweig, a questo punto è divenuta il “punto centrale del mondo, verso il quale guardano le estremità di esso. Ma ancora esistono ‘estremità’: un mondo che è più antico dell’Europa e che non è rinato da essa, e uno che è più giovane e che perciò pretende di essere più cresciuto di essa: la coscienza senile dell’Asia, quella infantile dell’America» (Rosenzweig, 1984, p. 111). Quest’opera in fondo è ancora incompiuta. «La storia ha fatto propria l’impresa di Colombo e di Vasco de Gama, ma quella di Magellano, che le collega entrambe, ancora oggi non è stata portata a compimento. Già spumeggiano le acque intorno alle tre coste dell’Africa, confluendo insieme in un unico mare. Ma la parte asciutta della terra non si è ancora chiusa nell’unica sfera. Non ancora dimora l’umanità in un’unica casa. Non ancora è l’Europa l’anima del mondo» (Rosenzweig, 1984, p. 112; corsivo mio). Certamente, la prospettiva di Rosenzweig è “eurocentrica” ed assegna all’Europa il ruolo di “anima del mondo”, sorprendentemente più al modo stoico che non ebraico. La ricostruzione della storia dello spazio – o, per meglio dire, delle sue rappresentazioni – coglie il movimento dinamico, il divenire “centro” da parte del mondo greco-romano e dell’Europa. Non solo ma descrive (e siamo nel 1917) lo scenario essenziale del XX e del XXI secolo. Durante questo periodo la parte asciutta della terra, se ancora “non si è chiusa in un'unica sfera”, diviene sempre più un unico mondo, un’unica società. I processi sono andati diversamente da quanto sperava Rosenzweig, che, scrivendo durante la prima guerra mondiale, sognava un mondo più armonico, rigenerato dall’Europa. Il XX secolo è stato “giocato” invece intorno alla lotta per l’egemonia tra le grandi potenze europee. Il risultato è stato la perdita di rilevanza di tutta l’Europa proprio rispetto alle due potenze citate da Rosenzweig: quella del passato, la Cina, certamente non rinata dal soffio culturale europeo; e l’America, nata da una costola dell’Europa. Una più attenta ricognizione, inoltre, deve registrare la comparsa di attori nuovi, non europei, sulla scena globale. L’Europa, al tempo di Rosenzweig ancora il “punto centrale del mondo”, sembra tornata ora “periferia”, anche se non più degli imperi asiatici, come nel passato, ma del nuovo mondo da essa generato, l’America. Ora si cerca affannosamente di recuperare una posizione e un ruolo nella scena globale, con incertezze, passi avanti e bruschi ritorni indietro. Qualcuno, ad esempio la Gran Bretagna, non ha ancora maturato la convinzione che l’Europa è il proprio orizzonte; qualche altro, ad esempio la Francia, vorrebbe l’Europa e, nello stesso tempo, mantenere lo stato-nazione che le ha dato la grandeur; i nuovi arrivati, ad esempio Polonia e Cekia, vorrebbero forse per la prima volta giocare il ruolo di “grandi nazioni”. L’apertura dell’Europa verso est, per ora più dal punto di vista economico e geografico che politico e culturale, potrebbe portare a realizzare il disegno imperiale da Rosenzweig attribuito a Giulio Cesare. In ogni caso nel XXI secolo la sfida per l’Europa è divenire una grande potenza, integrando in un disegno politico tutto il continente, oppure adeguarsi al suo ruolo di “periferia” del mondo. Questa condizione sarebbe ancora più dolorosa perché oggi i centri sono più numerosi e si corre il rischio di divenire periferia non del “punto centrale” del mondo (che non esiste più), ma di uno dei vari pretendenti alla centralità. Questo breve excursus storico sulla linea interpretativa di Rosenzweig ci permette di trarre la conclusione secondo la quale l’Europa non è stata solo “provincia occidentale” degli imperi orientali, ma anche luogo della costruzione della consapevolezza dell’unità del genere umano. Questa conclusione diventa più chiara se svolgiamo alcune altre brevi considerazioni storico-culturali. Se prendiamo la caratterizzazione hegeliana della storia dello spirito, ma non la sua struttura evoluzionista né tanto meno la sua impronta etnica, possiamo avere un’idea del contributo del mondo greco-romano ed europeo alla formazione dell’unità del genere umano. Nelle Lezioni di Filosofia della storia Hegel vede «la storia del mondo [come] il progresso nella coscienza della libertà: un progresso che noi dobbiamo riconoscere nella sua necessaria natura» (Hegel, 1830-31, p. 47). I momenti essenziali di questo processo, che per Hegel è anche un “progresso”, sono i seguenti: «Gli Orientali non sanno ancora che lo spirito, o l'uomo come tale, è libero in sé. Non sapendolo, non lo sono. Essi sanno che uno è libero; ma appunto per ciò questa libertà è arbitrio, barbarie, gravezza della passione ... Quest'uno è perciò solo un despota, non un uomo libero, un uomo. Presso i Greci, per primi, è sorta la coscienza della libertà, e perciò essi sono stati liberi; ma essi, come anche i Romani, sapevano solo che alcuni sono liberi, non l'uomo come tale... Solo le nazioni germaniche sono giunte nel cristianesimo alla coscienza che l'uomo come uomo è libero» (Hegel, 1830-1831, p. 46) . Hegel attribuisce alle nazioni germaniche questo merito, ma ciò non è affatto vero. Il pensiero che l’uomo come tale sia libero viene da lontano. I filosofi stoici, già prima del cristianesimo, affermano l’unità del genere umano e, dunque, la illegittimità della schiavitù. Secondo la ricostruzione del filosofo inglese Baldry (1965), l’idea della libertà dell’uomo come tale, o di ciò che egli chiama l’unità del genere umano, viene elaborata nella cultura greca nel primo millennio a. C.. In effetti, la schiavitù è stata giustificata, sia nell’antichità, sia in tempi più recenti, con l’ipotesi della diversità del genere umano. La natura avrebbe destinato alcuni uomini a servirne altri. Inoltre, poiché questi stessi servitori non sono in grado di governarsi, i loro padroni devono occuparsi di loro. L’idea opposta, secondo la quale la natura non ha destinato nessuno uomo ad essere schiavo di un altro, comporta l’idea dell’uguaglianza di tutti gli uomini. Nello stoicismo questa posizione è rafforzata dal concetto della fratellanza universale e dalla convinzione dell’esistenza di un logos universale di cui ognuno sarebbe in possesso. Inoltre, qualcuno (Cicerone) aggiunge anche l’ipotesi che l’uomo conterrebbe una scintilla di divinità. Questa modo di intendere l’umanità incontra nel suo cammino la concezione biblica dell’uomo e, in particolare, l’idea secondo la quale Dio avrebbe creato l’uomo a sua immagine e somiglianza. La sintesi di entrambe queste posizioni sarebbe contenuta nel cristianesimo. Queste concezioni dell’uomo non nascono dal nulla. Secondo Hegel, «per i greci e i romani in Oriente è sorto il mattino di un mondo bello; così avviene anche per il mondo cristiano, il cui padre naturale è l’imbrunire, l’Occidente d’Europa … Ma il Levante, l’Oriente, è suo padre in un senso superiore, è il suo padre spirituale» (Hege1, 1822-23, p. 477) . L’Oriente, dunque, avrebbe “prestato” un patrimonio immenso all’Occidente. Secondo la tesi di R. Brague, questa logica sarebbe il tratto distintivo dell’Europa. Il modello romano, a cui egli riconduce l’identità europea, sarebbe caratterizzato dalla rielaborazione di elementi di altre culture e di altre civiltà. Roma avrebbe rielaborato la cultura greca. L’Europa seguirebbe il modello romano non tanto per i singoli contenuti ma per la logica della sua elaborazione culturale. Già Hegel, tuttavia, aveva messo in luce questa logica: «Noi siamo stati formati dai romani, questi lo sono stati dai greci. Ma ciò che abbiamo ricevuto è anche un qualcosa di estraneo a noi e nella misura in cui ce ne appropriamo creiamo anche un che di nuovo». Ma Hegel, a differenza di Brague, conferisce a questa logica un tratto universale e non solo tipico degli europei. «E’ questo il rapporto essenziale della cultura di tutti i popoli. La cultura greca presuppone già anche essa stessa a sua volta una cultura» (Hegel, 1822-23, p. 359; corsivo mio). «Un presupposto, un qualcosa di estraneo, è altrettanto necessario quanto una rielaborazione del medesimo, la quale percorra i suoi stadi autonomi» (Hegel, 1822-23, p. 360). Non vi è dunque alcuna boria all’origine della coscienza dell’identità europea. Piuttosto la consapevolezza che, come avviene per ogni altro popolo, la nostra identità si costruisce nella relazione con l’altro, facendo propri aspetti della sua cultura e rielaborandoli secondo la nostra prospettiva. Non solo la logica dunque, come vorrebbe Brague, caratterizza l’identità europea, ma i contenuti da essa elaborati. Da questo punto di vista, allora, l’identità europea si esprime soprattutto nella teoria dei diritti umani. La teoria dell’unità del genere umano è il suo patrimonio per il futuro e il contributo che essa porta alla storia universale. Questa convinzione non implica una concezione armoniosa delle vicende europee. La storia europea non è stata improntata alla fratellanza ma percorsa da guerre e conflitti continui tra stati, tra nazioni e, spesso, ancora da più cruenti conflitti di classe e di religione all’interno dei diversi stati-nazione. Nonostante – o, forse, per un’astuzia della ragione, grazie a - questa storia, si è prodotto un patrimonio che la trascende. Il dialogo, la negoziazione paziente, la mediazione degli interessi hanno aperto nuove prospettive. La costruzione dell’Europa comporta, da un lato, la rottura con la sua storia violenta e, dall’altro, la valorizzazione del suo patrimonio culturale. La critica svolta da altri, non sempre innocenti, va pertanto assunta per la parte che incita alla rottura con la logica del puro dominio e va accompagnata con la proposta – e la richiesta – perché tutti si orientino al dialogo e al riconoscimento dell’identità dell’altro. La prospettiva della società globale, dalla quale si propone di guardare alla storia mondiale e, in particolare, alla storia europea, non è una prospettiva ingenua. Dietro internet non corrono solo fiabe a lieto fine. La possibilità di accesso alla documentazione resa oggi possibile dalle istituzioni mondiali permette alle scienze sociali di elaborare una prospettiva critica verso lo stato del mondo. Se i diritti umani e l’unità del genere umano non sono pura retorica, occorre mettere mano alla correzione delle enormi disparità nella distribuzione delle risorse tra gli uomini. La questione non riguarda solo la divisione tra paesi ricchi e paesi poveri. L’osservazione dei dati dimostra invece che la distribuzione delle risorse è ineguale sia a livello mondiale, sia nelle diverse aree del mondo, sia all’interno di ogni paese, del mondo ricco, del mondo povero e dei paesi in via di sviluppo. -
2009
9782296093959
Cotesta, V. (2009). Les droits de l'homme et la société globale. PARIS : L'Harmattan.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11590/184029
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