Lo Statuto di Roma, nel secondo comma dell’art. 22, ha codificato il principio della chiarezza, prevedendo che, in caso di ambiguità, l’interpretazione debba orientarsi in favore della persona indagata, processata o condannata. Si tratta di un riconoscimento che può apprezzarsi pienamente nel raffronto con le precedenti carte istitutive dei Tribunali penali internazionali. Sia lo Statuto del Tribunale di Norimberga, sia le carte successive, del primo largamente tributarie, lasciavano in ombra le coordinate essenziali della responsabilità individuale, affidandone la selezione ai giudici, senza indicare veri limiti. Né certo si era giunti all’espressa formulazione di un principio che si avvicinasse, negli esatti termini, a quello di chiarezza. Sotto questo profilo sembra senz’altro che lo Statuto di Roma, riconoscendo esplicitamente quel principio, compia un passo di indiscutibile valore, attribuendogli la giusta centralità in un sistema stabile di protezione dei diritti umani. L’accoglimento di una concezione “chiusa” della legalità, vincolata a una formale e certa previsione, da parte del medesimo Statuto, di fonti, contenuti e limiti della responsabilità per crimini internazionali, segna il tramonto di quelle ipotesi alternative, pure testimoniate dai lavori preparatori e dall’intero corso del processo di maturazione dello Statuto , favorevoli all’edificazione di un sistema “aperto”, nel quale riconoscere paritaria rilevanza, accanto alla legge “scritta”, a fonti quali la consuetudine o l’analogia, legis o iuris. Vale a dire fonti che potessero traghettare una visione della legalità svincolata da scelte formalizzate, circoscritte da schemi legali pienamente idonei a svolgere una funzione definitoria e di garanzia. Chiarezza della norma penale significa applicabilità della norma medesima nei soli casi che essa prevede con certezza; inapplicabilità nei casi dubbi. Più esattamente, la non applicazione deriva dall’impossibilità dell’interprete di riconoscere un preciso contenuto della norma, adeguato al caso da giudicare; con il risultato che, per quello specifico caso, essa è del tutto priva della capacità di produrre un qualsiasi effetto collegato alla qualifica “criminale” del fatto . Ponendosi dal punto di vista del diritto italiano, il principio vanta il conforto di centrali disposizioni del sistema, nelle quali è univocamente tracciato. L’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale considera infatti prodotto consentito dell’interpretazione soltanto quello che sia «fatto palese» da ciascuna disposizione, escludendo così ogni esito dell’opera interpretativa, che, per non essere «fatto palese», debba considerarsi dubbio, e quindi estraneo a una «precisa disposizione». Dal canto suo, il successivo art. 14 delle preleggi valuta come indispensabile, per regolare il casus dubius, l’estensione analogica della norma, la quale però incontra precisi vincoli, essendo vietata quando abbia per effetto l’ampliamento dell’incriminazione. Dati, questi, che assumono nel nostro sistema rilievo anche costituzionale, perché l’ambito della riserva di legge sancita dall’art. 25 co. 2 della Costituzione, così come il ruolo consequenziale dell’interprete, vanno determinati sulla base della descritta ripartizione tra caso certo e caso dubbio, collegando la pena e ogni altro effetto penale al presupposto di una chiara previsione, da parte della legge, di tutti gli elementi che concorrono a definire il «fatto» sanzionato. Il principio di chiarezza esprime dunque un limite logico della norma, da non confondere affatto con un limite puramente testuale. Vale a dire che l’interprete, seguendo il principio, potrebbe anche concludere con l’attribuire alla norma significati parzialmente diversi da quelli segnalati da una ricognizione, sia pur articolata, della sola lettera del testo, con il quale la norma sia espressa. L’argomento logico, per sua natura, non potendo né dovendo essere bandito dall’interpretazione, potrebbe cioè orientare nel senso che un’estensione del testo si sintonizzi al meglio con il senso vero della norma, perché rispondente alla volontà che in essa si esprime e agli obiettivi di tutela che di volta in volta debbano essere affermati. La chiarezza interviene perciò a segnare il limite di sviluppo dell’interpretazione, nelle sue diverse forme; e precisa che né la volontà sottintesa alla legge, né le esigenze di tutela avvertite in un certo momento storico, ancorché per altro verso da coltivare in una legislazione a venire, consentono di superare quella che appaia come una lacuna della norma. Lacuna che appunto si apre a partire dal caso “dubbio”: dal caso, cioè, che non rientri nella norma, per non essere a quest’ultima riconducibile con la medesima sicurezza che contraddistingue il casus legis. Proprio nella sua funzione di limite logico dell’incriminazione, il principio di chiarezza sembra oggi riconosciuto dallo Statuto di Roma, apparendo così quale garanzia di certezza, oltre che sul piano dell’ordinamento interno, anche a livello internazionale. Lo Statuto, più esattamente, collega il dovere di interpretazione favorevole all’emergere di un «caso di ambiguità» nella definizione del crimine. Sembra peraltro della massima importanza che nell’art. 22 co. 2 dello Statuto l’ambiguità sia posta in relazione con la «definizione del crimine»; collegamento che impone di concludere per la non-definizione – o definizione assente – in ogni caso non compreso chiaramente nella norma. Il principio si presenta così nella sua autentica veste, non già di semplice criterio interpretativo, ma di strumento ricognitivo dei contenuti ascrivibili a ciascuna norma. In altri termini lo Statuto, ancorché parli di interpretazione «favorevole» all’accusato, intende in realtà fissare, piuttosto che un criterio di scelta tra più ipotesi interpretative concorrenti, la regola di individuazione della sola interpretazione ammissibile, a seconda che sia sostenuta oppure no da un sicuro fondamento normativo, rintracciabile nella definizione del crimine. Definizione che può predicarsi come “presente” solo a patto di essere affrancata da ambiguità, come lo Statuto si fa meritoriamente carico di precisare, mentre, laddove ambiguità vi sia, la definizione mancherebbe, con ogni conseguenza. Ecco dunque che l’interpretazione favorevole, resa doverosa dallo Statuto, non è il prodotto di una scelta che si imponga rispetto ad altra, meno favorevole ma astrattamente praticabile, in assenza di una disposizione tipo quella dell’art. 22, comma 2. In caso di ambiguità, l’interpretazione «favorevole», che sia tale perché esclude un certo contenuto di incriminazione, è in realtà l’unica ammessa dal principio di legalità, in forza del corollario della chiarezza, in quanto mancherebbe, nella parte viziata da ambiguità, la norma da applicare. Anche sotto questi profili vi è dunque convergenza con il principio di chiarezza per come si afferma nell’ordinamento italiano, e per come andrebbe ricostruito su un piano teorico generale.

Masucci, M. (2010). - Definizione del crimine e principio di chiarezza nello Statuto della Corte penale internazionale. In Diritto penale internazionale. Studi, a cura di Mezzetti (II ed.). TORINO : Giappichelli.

- Definizione del crimine e principio di chiarezza nello Statuto della Corte penale internazionale

MASUCCI, MASSIMILIANO
2010-01-01

Abstract

Lo Statuto di Roma, nel secondo comma dell’art. 22, ha codificato il principio della chiarezza, prevedendo che, in caso di ambiguità, l’interpretazione debba orientarsi in favore della persona indagata, processata o condannata. Si tratta di un riconoscimento che può apprezzarsi pienamente nel raffronto con le precedenti carte istitutive dei Tribunali penali internazionali. Sia lo Statuto del Tribunale di Norimberga, sia le carte successive, del primo largamente tributarie, lasciavano in ombra le coordinate essenziali della responsabilità individuale, affidandone la selezione ai giudici, senza indicare veri limiti. Né certo si era giunti all’espressa formulazione di un principio che si avvicinasse, negli esatti termini, a quello di chiarezza. Sotto questo profilo sembra senz’altro che lo Statuto di Roma, riconoscendo esplicitamente quel principio, compia un passo di indiscutibile valore, attribuendogli la giusta centralità in un sistema stabile di protezione dei diritti umani. L’accoglimento di una concezione “chiusa” della legalità, vincolata a una formale e certa previsione, da parte del medesimo Statuto, di fonti, contenuti e limiti della responsabilità per crimini internazionali, segna il tramonto di quelle ipotesi alternative, pure testimoniate dai lavori preparatori e dall’intero corso del processo di maturazione dello Statuto , favorevoli all’edificazione di un sistema “aperto”, nel quale riconoscere paritaria rilevanza, accanto alla legge “scritta”, a fonti quali la consuetudine o l’analogia, legis o iuris. Vale a dire fonti che potessero traghettare una visione della legalità svincolata da scelte formalizzate, circoscritte da schemi legali pienamente idonei a svolgere una funzione definitoria e di garanzia. Chiarezza della norma penale significa applicabilità della norma medesima nei soli casi che essa prevede con certezza; inapplicabilità nei casi dubbi. Più esattamente, la non applicazione deriva dall’impossibilità dell’interprete di riconoscere un preciso contenuto della norma, adeguato al caso da giudicare; con il risultato che, per quello specifico caso, essa è del tutto priva della capacità di produrre un qualsiasi effetto collegato alla qualifica “criminale” del fatto . Ponendosi dal punto di vista del diritto italiano, il principio vanta il conforto di centrali disposizioni del sistema, nelle quali è univocamente tracciato. L’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale considera infatti prodotto consentito dell’interpretazione soltanto quello che sia «fatto palese» da ciascuna disposizione, escludendo così ogni esito dell’opera interpretativa, che, per non essere «fatto palese», debba considerarsi dubbio, e quindi estraneo a una «precisa disposizione». Dal canto suo, il successivo art. 14 delle preleggi valuta come indispensabile, per regolare il casus dubius, l’estensione analogica della norma, la quale però incontra precisi vincoli, essendo vietata quando abbia per effetto l’ampliamento dell’incriminazione. Dati, questi, che assumono nel nostro sistema rilievo anche costituzionale, perché l’ambito della riserva di legge sancita dall’art. 25 co. 2 della Costituzione, così come il ruolo consequenziale dell’interprete, vanno determinati sulla base della descritta ripartizione tra caso certo e caso dubbio, collegando la pena e ogni altro effetto penale al presupposto di una chiara previsione, da parte della legge, di tutti gli elementi che concorrono a definire il «fatto» sanzionato. Il principio di chiarezza esprime dunque un limite logico della norma, da non confondere affatto con un limite puramente testuale. Vale a dire che l’interprete, seguendo il principio, potrebbe anche concludere con l’attribuire alla norma significati parzialmente diversi da quelli segnalati da una ricognizione, sia pur articolata, della sola lettera del testo, con il quale la norma sia espressa. L’argomento logico, per sua natura, non potendo né dovendo essere bandito dall’interpretazione, potrebbe cioè orientare nel senso che un’estensione del testo si sintonizzi al meglio con il senso vero della norma, perché rispondente alla volontà che in essa si esprime e agli obiettivi di tutela che di volta in volta debbano essere affermati. La chiarezza interviene perciò a segnare il limite di sviluppo dell’interpretazione, nelle sue diverse forme; e precisa che né la volontà sottintesa alla legge, né le esigenze di tutela avvertite in un certo momento storico, ancorché per altro verso da coltivare in una legislazione a venire, consentono di superare quella che appaia come una lacuna della norma. Lacuna che appunto si apre a partire dal caso “dubbio”: dal caso, cioè, che non rientri nella norma, per non essere a quest’ultima riconducibile con la medesima sicurezza che contraddistingue il casus legis. Proprio nella sua funzione di limite logico dell’incriminazione, il principio di chiarezza sembra oggi riconosciuto dallo Statuto di Roma, apparendo così quale garanzia di certezza, oltre che sul piano dell’ordinamento interno, anche a livello internazionale. Lo Statuto, più esattamente, collega il dovere di interpretazione favorevole all’emergere di un «caso di ambiguità» nella definizione del crimine. Sembra peraltro della massima importanza che nell’art. 22 co. 2 dello Statuto l’ambiguità sia posta in relazione con la «definizione del crimine»; collegamento che impone di concludere per la non-definizione – o definizione assente – in ogni caso non compreso chiaramente nella norma. Il principio si presenta così nella sua autentica veste, non già di semplice criterio interpretativo, ma di strumento ricognitivo dei contenuti ascrivibili a ciascuna norma. In altri termini lo Statuto, ancorché parli di interpretazione «favorevole» all’accusato, intende in realtà fissare, piuttosto che un criterio di scelta tra più ipotesi interpretative concorrenti, la regola di individuazione della sola interpretazione ammissibile, a seconda che sia sostenuta oppure no da un sicuro fondamento normativo, rintracciabile nella definizione del crimine. Definizione che può predicarsi come “presente” solo a patto di essere affrancata da ambiguità, come lo Statuto si fa meritoriamente carico di precisare, mentre, laddove ambiguità vi sia, la definizione mancherebbe, con ogni conseguenza. Ecco dunque che l’interpretazione favorevole, resa doverosa dallo Statuto, non è il prodotto di una scelta che si imponga rispetto ad altra, meno favorevole ma astrattamente praticabile, in assenza di una disposizione tipo quella dell’art. 22, comma 2. In caso di ambiguità, l’interpretazione «favorevole», che sia tale perché esclude un certo contenuto di incriminazione, è in realtà l’unica ammessa dal principio di legalità, in forza del corollario della chiarezza, in quanto mancherebbe, nella parte viziata da ambiguità, la norma da applicare. Anche sotto questi profili vi è dunque convergenza con il principio di chiarezza per come si afferma nell’ordinamento italiano, e per come andrebbe ricostruito su un piano teorico generale.
2010
9788834888018
Masucci, M. (2010). - Definizione del crimine e principio di chiarezza nello Statuto della Corte penale internazionale. In Diritto penale internazionale. Studi, a cura di Mezzetti (II ed.). TORINO : Giappichelli.
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