La modernità inizia con una esuberante ansia di novità: «Una grande epoca è cominciata. Esiste uno spirito nuovo», scrive Le Corbusier nel 1924. Eppure, secondo Freud, il nuovo contiene anche qualcosa di spaventoso, di perturbante (Unheimlich, cioè non domestico): qualcosa che ci fa vivere male la casa, che la rende poco confortevole e poco accogliente. Questo disagio dell’abitare sembra essere una costante che attraversa tutta l’esperienza dell’architettura moderna fino alla contemporaneità, e che pone il tema del corpo al centro della riflessione sulla costruzione dello spazio. L’architettura ha da sempre presupposto l’esistenza di un’analogia tra corpo e spazio costruito, non solo simbolica e figurativa, ma anche in termini di proporzionamento delle parti. Il moderno ha invece spostato questa analogia sul piano funzionale, pensando l’edificio come una macchina regolata sui bisogni biologici del corpo. Così, mentre da un lato si sviluppa un vero e proprio culto del corpo, che è contiguo con l’igienismo che presiederà al progetto della casa, della città e della società, dall’altro appare sempre più evidente che il corpo a cui fa riferimento il modernismo è progressivamente più generico e astratto: un insieme di misure e bisogni in termini di spazio, aria, luce, cibo. Il burattino, il corpo meccanico è infatti un luogo molto frequentato da tutte le arti, figurative e non, ma le rappresentazioni che ne danno i manuali tecnici ne sono forse la consacrazione definitiva e ne fanno il vero presupposto della casa come macchina per abitare. Con la meccanizzazione, inizia anche un progressivo disinteresse per le scale di progettazione più ravvicinate, che più hanno rapporto con il corpo e che ne indirizzano il contatto con l’architettura. Anthony Vidler ha osservato che alcuni architetti contemporanei come Bernard Tschumi e Coop Himmelb(l)au hanno ripreso il tema dell’analogia corporea, ma in segno di rottura proprio con le teorie architettoniche miranti alla realizzazione dell’armonia domestica, e quindi con un atteggiamento dichiaratamente unheimlich. Osservando le loro architetture, continua Vidler, «qualunque possessore di un corpo convenzionale si sentirà inevitabilmente minacciato». Nel rifiuto di ogni forma di architettura come luogo accogliente, l’edificio è sì visto come un corpo, ma si tratta di un corpo mutilo, e soprattutto privato dei suoi prolungamenti negli oggetti di uso comune e nella casa. Sia Pavel Florenskij sia Gottfried Semper avevano avuto una visione del corpo come costruttore, che identificava nelle tecniche l’espressione di alcune fondamentali abilità manuali. Ma il dominio, nel modernismo architettonico, dell’universo visivo ha messo in secondo piano questo tipo di approccio. Veniamo infatti da una tradizione di derivazione rinascimentale che ha posto la visione al centro degli strumenti del progetto. La percezione cinestetica dello spazio, che sappiamo essere una percezione integralmente corporea, si è andata sempre più identificando con la percezione visiva tout court. Eppure, scriveva Merleau-Ponty, «la mia percezione non è una somma di dati visivi, tattili, auditivi, io percepisco in modo indiviso con il mio essere totale, colgo una struttura unica delle cose, un’unica maniera di esistere, che parla contemporaneamente a tutti i miei sensi». Non è facile superare il pregiudizio della visione, se pensiamo anche all’importanza che nella formazione degli architetti è rivestita dal disegno, dalla geometria descrittiva e dalla rappresentazione bidimensionale, che in qualche modo ci abitua a pensare che l’architettura sia qualcosa da guardare - da «saper vedere» -, prima che da costruire e abitare. Nonostante tutto, nella multiforme continuità tra moderno e contemporaneo si sono sviluppate numerose esperienze che passano attraverso la centralità del corpo nell’architettura, anche - non appaia paradossale - supportata dagli strumenti digitali, come avviene per Toyo Ito, fino alle recenti opere cinematografiche di Ila Bêka e Louise Lemoine, che propongono un progetto di visione alternativa e “abitata” delle icone architettoniche realizzate da alcune star del panorama odierno.
Longobardi, G. (2012). Architettura del corpo vivente. In F.T. Antonino Terranova (a cura di), Teorie figure architetti del Modernocontemporaneo (pp. 194-202). Roma : Gangemi editore.
Architettura del corpo vivente
LONGOBARDI, GIOVANNI
2012-01-01
Abstract
La modernità inizia con una esuberante ansia di novità: «Una grande epoca è cominciata. Esiste uno spirito nuovo», scrive Le Corbusier nel 1924. Eppure, secondo Freud, il nuovo contiene anche qualcosa di spaventoso, di perturbante (Unheimlich, cioè non domestico): qualcosa che ci fa vivere male la casa, che la rende poco confortevole e poco accogliente. Questo disagio dell’abitare sembra essere una costante che attraversa tutta l’esperienza dell’architettura moderna fino alla contemporaneità, e che pone il tema del corpo al centro della riflessione sulla costruzione dello spazio. L’architettura ha da sempre presupposto l’esistenza di un’analogia tra corpo e spazio costruito, non solo simbolica e figurativa, ma anche in termini di proporzionamento delle parti. Il moderno ha invece spostato questa analogia sul piano funzionale, pensando l’edificio come una macchina regolata sui bisogni biologici del corpo. Così, mentre da un lato si sviluppa un vero e proprio culto del corpo, che è contiguo con l’igienismo che presiederà al progetto della casa, della città e della società, dall’altro appare sempre più evidente che il corpo a cui fa riferimento il modernismo è progressivamente più generico e astratto: un insieme di misure e bisogni in termini di spazio, aria, luce, cibo. Il burattino, il corpo meccanico è infatti un luogo molto frequentato da tutte le arti, figurative e non, ma le rappresentazioni che ne danno i manuali tecnici ne sono forse la consacrazione definitiva e ne fanno il vero presupposto della casa come macchina per abitare. Con la meccanizzazione, inizia anche un progressivo disinteresse per le scale di progettazione più ravvicinate, che più hanno rapporto con il corpo e che ne indirizzano il contatto con l’architettura. Anthony Vidler ha osservato che alcuni architetti contemporanei come Bernard Tschumi e Coop Himmelb(l)au hanno ripreso il tema dell’analogia corporea, ma in segno di rottura proprio con le teorie architettoniche miranti alla realizzazione dell’armonia domestica, e quindi con un atteggiamento dichiaratamente unheimlich. Osservando le loro architetture, continua Vidler, «qualunque possessore di un corpo convenzionale si sentirà inevitabilmente minacciato». Nel rifiuto di ogni forma di architettura come luogo accogliente, l’edificio è sì visto come un corpo, ma si tratta di un corpo mutilo, e soprattutto privato dei suoi prolungamenti negli oggetti di uso comune e nella casa. Sia Pavel Florenskij sia Gottfried Semper avevano avuto una visione del corpo come costruttore, che identificava nelle tecniche l’espressione di alcune fondamentali abilità manuali. Ma il dominio, nel modernismo architettonico, dell’universo visivo ha messo in secondo piano questo tipo di approccio. Veniamo infatti da una tradizione di derivazione rinascimentale che ha posto la visione al centro degli strumenti del progetto. La percezione cinestetica dello spazio, che sappiamo essere una percezione integralmente corporea, si è andata sempre più identificando con la percezione visiva tout court. Eppure, scriveva Merleau-Ponty, «la mia percezione non è una somma di dati visivi, tattili, auditivi, io percepisco in modo indiviso con il mio essere totale, colgo una struttura unica delle cose, un’unica maniera di esistere, che parla contemporaneamente a tutti i miei sensi». Non è facile superare il pregiudizio della visione, se pensiamo anche all’importanza che nella formazione degli architetti è rivestita dal disegno, dalla geometria descrittiva e dalla rappresentazione bidimensionale, che in qualche modo ci abitua a pensare che l’architettura sia qualcosa da guardare - da «saper vedere» -, prima che da costruire e abitare. Nonostante tutto, nella multiforme continuità tra moderno e contemporaneo si sono sviluppate numerose esperienze che passano attraverso la centralità del corpo nell’architettura, anche - non appaia paradossale - supportata dagli strumenti digitali, come avviene per Toyo Ito, fino alle recenti opere cinematografiche di Ila Bêka e Louise Lemoine, che propongono un progetto di visione alternativa e “abitata” delle icone architettoniche realizzate da alcune star del panorama odierno.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.