San Paolo, la più grande metropoli del Brasile, si candida a divenire la città no-global per eccellenza: persino Naomi Klein, l’autrice del celeberrimo No Logo, non avrebbe potuto fare di meglio. Come immaginare un’intera metropoli senza cartelloni pubblicitari? Anche il volantinaggio è proibito. Nessuna ragazzina ammiccante ci potrà più rammentare dall’alto delle sue curve perfette quanto sia necessaria l’Euchessina, perché il nostro intestino possa sopravvivere nella giungla delle prelibatezze dei forni a microonde di nuova generazione. Nessuna testimonial potrà più invitarci ad acquistare quel nuovo reggiseno che promette curve prorompenti anche a chi non le ha. E che dire dei giovani no-global attivi sul fronte del cultural jamming? Non ci sono più cartelloni pubblicitari da modificare, non c’è più modo di fare interferenza culturale. Questa iniziativa, prima e unica al mondo, si deve ad un sindaco liberale Gilberto Kassb, eletto a San Paolo nel marzo 2006. Subito dopo la sua elezione ha dichiarato guerra al “poluiçao visual”, l’inquinamento visuale. Nel settembre 2006 è stata votata in Consiglio comunale la Lei Cidade limpa, la Legge Città Pulita, con 45 voti a favore e 1 contrario. Da allora, ad un ritmo di oltre 100 al giorno, sono stati smontati tutti i cartelloni pubblicitari. Se da una parte il sindaco e il consiglio comunale esultano, dall’altra i commercianti hanno presentato invano ricorso in tribunale, per non parlare dell’industria grafica che perde un fatturato di oltre 100 milioni di dollari all’anno. San Paolo con i suoi 11 milioni di abitanti e i 1509 kmq di superficie è tornata ad essere quell’austera città, fondata nel 1554 dai padri Gesuiti. Il concetto di inquinamento visuale trova nel caso di San Paolo la sua prima implementazione politica, ma qual è la forza analitica di un concetto come questo? E perché mai le immagini dovrebbero o potrebbero avere un effetto, ancorché collaterale, di tipo inquinante? Le immagini della pubblicità, così come l’immaginario proposto dal cinema e dalle fiction divertono, fanno sognare, ci forniscono il materiale necessario per rappresentare noi stessi e i nostri sogni. In che senso allora possono inquinare e in che modo? Gli studi ambientalisti ci hanno abituato a convivere con l’inquinamento acustico, atmosferico, luminoso, elettromagnetico, ambientale, ma tale concetto non è ancora stato esteso al mondo del simbolico. Possiamo immaginare che ci siano immagini che, al pari delle polveri sottili, siano capaci di inquinare le nostri menti o meglio di inquinare le rappresentazioni sociali di certi fenomeni che noi elaboriamo nelle nostre menti. Tali immagini avrebbero poi la capacità di orientare i nostri corsi di azione futuri rispetto ai fenomeni che rappresentano. Esse si caratterizzerebbero per la loro capacità di strutturare formazioni sociali, quali il razzismo (si veda a questo proposito il saggio di van Dijk contenuto nel presente volume) o il sessismo. Un concetto di questo tipo, tuttavia, pone una serie di interrogativi teorici ed empirici rilevanti: in primo luogo, occorre interrogarsi sul carattere di testo aperto - riprendendo la classica distinzione di Umberto Eco - di qualsiasi testo visuale. In altri termini, non possiamo presumere che ci sia una condivisa intersoggettività, soggiacente al modo in cui un’immagine viene decodificata dai suoi fruitori. Ciò che è altamente “inquinante” e negativo per alcuni, può non esserlo affatto per altri, appartenenti a gruppi sociali diversi.
Tota, A.L. (2008). Inquinamento visuale e sostenibilità dell'immaginario. In Tota Anna Lisa (a cura di), Gender e media. Verso un immaginario sostenibile (pp. 15-38). ROMA : Meltemi Editore.
Inquinamento visuale e sostenibilità dell'immaginario
TOTA, ANNA LISA
2008-01-01
Abstract
San Paolo, la più grande metropoli del Brasile, si candida a divenire la città no-global per eccellenza: persino Naomi Klein, l’autrice del celeberrimo No Logo, non avrebbe potuto fare di meglio. Come immaginare un’intera metropoli senza cartelloni pubblicitari? Anche il volantinaggio è proibito. Nessuna ragazzina ammiccante ci potrà più rammentare dall’alto delle sue curve perfette quanto sia necessaria l’Euchessina, perché il nostro intestino possa sopravvivere nella giungla delle prelibatezze dei forni a microonde di nuova generazione. Nessuna testimonial potrà più invitarci ad acquistare quel nuovo reggiseno che promette curve prorompenti anche a chi non le ha. E che dire dei giovani no-global attivi sul fronte del cultural jamming? Non ci sono più cartelloni pubblicitari da modificare, non c’è più modo di fare interferenza culturale. Questa iniziativa, prima e unica al mondo, si deve ad un sindaco liberale Gilberto Kassb, eletto a San Paolo nel marzo 2006. Subito dopo la sua elezione ha dichiarato guerra al “poluiçao visual”, l’inquinamento visuale. Nel settembre 2006 è stata votata in Consiglio comunale la Lei Cidade limpa, la Legge Città Pulita, con 45 voti a favore e 1 contrario. Da allora, ad un ritmo di oltre 100 al giorno, sono stati smontati tutti i cartelloni pubblicitari. Se da una parte il sindaco e il consiglio comunale esultano, dall’altra i commercianti hanno presentato invano ricorso in tribunale, per non parlare dell’industria grafica che perde un fatturato di oltre 100 milioni di dollari all’anno. San Paolo con i suoi 11 milioni di abitanti e i 1509 kmq di superficie è tornata ad essere quell’austera città, fondata nel 1554 dai padri Gesuiti. Il concetto di inquinamento visuale trova nel caso di San Paolo la sua prima implementazione politica, ma qual è la forza analitica di un concetto come questo? E perché mai le immagini dovrebbero o potrebbero avere un effetto, ancorché collaterale, di tipo inquinante? Le immagini della pubblicità, così come l’immaginario proposto dal cinema e dalle fiction divertono, fanno sognare, ci forniscono il materiale necessario per rappresentare noi stessi e i nostri sogni. In che senso allora possono inquinare e in che modo? Gli studi ambientalisti ci hanno abituato a convivere con l’inquinamento acustico, atmosferico, luminoso, elettromagnetico, ambientale, ma tale concetto non è ancora stato esteso al mondo del simbolico. Possiamo immaginare che ci siano immagini che, al pari delle polveri sottili, siano capaci di inquinare le nostri menti o meglio di inquinare le rappresentazioni sociali di certi fenomeni che noi elaboriamo nelle nostre menti. Tali immagini avrebbero poi la capacità di orientare i nostri corsi di azione futuri rispetto ai fenomeni che rappresentano. Esse si caratterizzerebbero per la loro capacità di strutturare formazioni sociali, quali il razzismo (si veda a questo proposito il saggio di van Dijk contenuto nel presente volume) o il sessismo. Un concetto di questo tipo, tuttavia, pone una serie di interrogativi teorici ed empirici rilevanti: in primo luogo, occorre interrogarsi sul carattere di testo aperto - riprendendo la classica distinzione di Umberto Eco - di qualsiasi testo visuale. In altri termini, non possiamo presumere che ci sia una condivisa intersoggettività, soggiacente al modo in cui un’immagine viene decodificata dai suoi fruitori. Ciò che è altamente “inquinante” e negativo per alcuni, può non esserlo affatto per altri, appartenenti a gruppi sociali diversi.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.