Il rapporto tra linguaggio verbale e azione sociale è stato al centro di numerose riflessioni nell’ambito delle scienze sociali. In particolare, la prospettiva sociologica ha teso a declinare questo tema rispetto alla costruzione delle identità sociali. Il costruttivismo radicale e la fenomenologia ci hanno insegnato che noi siamo anche le parole che ascoltiamo. La nostra soggettività avrebbe dunque anche un fondamento discorsivo: una collezione di percezioni discontinue, come diceva David Hume, alle quali tuttavia attribuiremmo significato anche grazie alle interazioni sociali, di cui siamo partecipi. Nel discorso pubblico contemporaneo concetti come quello di inquinamento ambientale, acustico o elettromagnetico sono diventati per noi del tutto familiari. Tali concetti spesso sono stati messi in relazione con i processi identitari. In altri termini, siamo ormai abituati a ragionare sul fatto che noi siamo “anche” il cibo che mangiamo, l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo. Dalla riflessione di Gregory Bateson prima - e dalla scuola di Palo Alto poi - abbiamo appreso non soltanto che le parole possono nutrire e sostenere le identità individuali e collettive. Abbiamo imparato anche che ci sono parole che fanno ammalare: ascoltarle a lungo in determinate condizioni (come quelle del doppio vincolo, ad esempio) può condurre a disordini gravi della personalità, quali la schizofrenia. Ci sono parole dunque - o più precisamente strutture discorsive - capaci di minare la soggettività, oppure capaci di inquinare irrimediabilmente la vita istituzionale di un’organizzazione o di una collettività. Ma questo vale soltanto per i discorsi? E le immagini come funzionano: sono potenti quanto le parole? Nella società contemporanea una delle risorse fondamentali con cui interpretiamo la realtà e con cui diamo significato alla nostra esistenza è costituita dalle immagini. In altri termini, potremmo ugualmente affermare che noi siamo anche le immagini che vediamo? E come possiamo declinare questo concetto tenendo conto specificamente delle caratteristiche dei testi iconici e del contributo delle teorie della fruizione mediale? In altri termini, possiamo ipotizzare che il concetto di inquinamento visuale sia utile oppure dati i gradi di libertà del fruitore nei processi di ricezione è assolutamente fuorviante Il rapporto tra linguaggio verbale e azione sociale è stato al centro di numerose riflessioni nell’ambito delle scienze sociali. In particolare, la prospettiva sociologica ha teso a declinare questo tema rispetto alla costruzione delle identità sociali. Il costruttivismo radicale e la fenomenologia ci hanno insegnato che noi siamo anche le parole che ascoltiamo. La nostra soggettività avrebbe dunque anche un fondamento discorsivo: una collezione di percezioni discontinue, come diceva David Hume, alle quali tuttavia attribuiremmo significato anche grazie alle interazioni sociali, di cui siamo partecipi. Nel discorso pubblico contemporaneo concetti come quello di inquinamento ambientale, acustico o elettromagnetico sono diventati per noi del tutto familiari. Tali concetti spesso sono stati messi in relazione con i processi identitari. In altri termini, siamo ormai abituati a ragionare sul fatto che noi siamo “anche” il cibo che mangiamo, l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo. Dalla riflessione di Gregory Bateson prima - e dalla scuola di Palo Alto poi - abbiamo appreso non soltanto che le parole possono nutrire e sostenere le identità individuali e collettive. Abbiamo imparato anche che ci sono parole che fanno ammalare: ascoltarle a lungo in determinate condizioni (come quelle del doppio vincolo, ad esempio) può condurre a disordini gravi della personalità, quali la schizofrenia. Ci sono parole dunque - o più precisamente strutture discorsive - capaci di minare la soggettività, oppure capaci di inquinare irrimediabilmente la vita istituzionale di un’organizzazione o di una collettività. Ma questo vale soltanto per i discorsi? E le immagini come funzionano: sono potenti quanto le parole? Nella società contemporanea una delle risorse fondamentali con cui interpretiamo la realtà e con cui diamo significato alla nostra esistenza è costituita dalle immagini. In altri termini, potremmo ugualmente affermare che noi siamo anche le immagini che vediamo? E come possiamo declinare questo concetto tenendo conto specificamente delle caratteristiche dei testi iconici e del contributo delle teorie della fruizione mediale? In altri termini, possiamo ipotizzare che il concetto di inquinamento visuale sia utile oppure dati i gradi di libertà del fruitore nei processi di ricezione è assolutamente fuorviante Il rapporto tra linguaggio verbale e azione sociale è stato al centro di numerose riflessioni nell’ambito delle scienze sociali. In particolare, la prospettiva sociologica ha teso a declinare questo tema rispetto alla costruzione delle identità sociali. Il costruttivismo radicale e la fenomenologia ci hanno insegnato che noi siamo anche le parole che ascoltiamo. La nostra soggettività avrebbe dunque anche un fondamento discorsivo: una collezione di percezioni discontinue, come diceva David Hume, alle quali tuttavia attribuiremmo significato anche grazie alle interazioni sociali, di cui siamo partecipi. Nel discorso pubblico contemporaneo concetti come quello di inquinamento ambientale, acustico o elettromagnetico sono diventati per noi del tutto familiari. Tali concetti spesso sono stati messi in relazione con i processi identitari. In altri termini, siamo ormai abituati a ragionare sul fatto che noi siamo “anche” il cibo che mangiamo, l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo.
Tota, A.L. (2012). Il potere delle immagini. Inquinamento visuale e pubblicità. In Giorgio De Vincenti e Enrico Carocci (a cura di), Il cinema e le emozioni. Estetica, espressione, esperienza (pp. 417-426). ROMA : Fondazione Ente dello Spettacolo.
Il potere delle immagini. Inquinamento visuale e pubblicità
TOTA, ANNA LISA
2012-01-01
Abstract
Il rapporto tra linguaggio verbale e azione sociale è stato al centro di numerose riflessioni nell’ambito delle scienze sociali. In particolare, la prospettiva sociologica ha teso a declinare questo tema rispetto alla costruzione delle identità sociali. Il costruttivismo radicale e la fenomenologia ci hanno insegnato che noi siamo anche le parole che ascoltiamo. La nostra soggettività avrebbe dunque anche un fondamento discorsivo: una collezione di percezioni discontinue, come diceva David Hume, alle quali tuttavia attribuiremmo significato anche grazie alle interazioni sociali, di cui siamo partecipi. Nel discorso pubblico contemporaneo concetti come quello di inquinamento ambientale, acustico o elettromagnetico sono diventati per noi del tutto familiari. Tali concetti spesso sono stati messi in relazione con i processi identitari. In altri termini, siamo ormai abituati a ragionare sul fatto che noi siamo “anche” il cibo che mangiamo, l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo. Dalla riflessione di Gregory Bateson prima - e dalla scuola di Palo Alto poi - abbiamo appreso non soltanto che le parole possono nutrire e sostenere le identità individuali e collettive. Abbiamo imparato anche che ci sono parole che fanno ammalare: ascoltarle a lungo in determinate condizioni (come quelle del doppio vincolo, ad esempio) può condurre a disordini gravi della personalità, quali la schizofrenia. Ci sono parole dunque - o più precisamente strutture discorsive - capaci di minare la soggettività, oppure capaci di inquinare irrimediabilmente la vita istituzionale di un’organizzazione o di una collettività. Ma questo vale soltanto per i discorsi? E le immagini come funzionano: sono potenti quanto le parole? Nella società contemporanea una delle risorse fondamentali con cui interpretiamo la realtà e con cui diamo significato alla nostra esistenza è costituita dalle immagini. In altri termini, potremmo ugualmente affermare che noi siamo anche le immagini che vediamo? E come possiamo declinare questo concetto tenendo conto specificamente delle caratteristiche dei testi iconici e del contributo delle teorie della fruizione mediale? In altri termini, possiamo ipotizzare che il concetto di inquinamento visuale sia utile oppure dati i gradi di libertà del fruitore nei processi di ricezione è assolutamente fuorviante Il rapporto tra linguaggio verbale e azione sociale è stato al centro di numerose riflessioni nell’ambito delle scienze sociali. In particolare, la prospettiva sociologica ha teso a declinare questo tema rispetto alla costruzione delle identità sociali. Il costruttivismo radicale e la fenomenologia ci hanno insegnato che noi siamo anche le parole che ascoltiamo. La nostra soggettività avrebbe dunque anche un fondamento discorsivo: una collezione di percezioni discontinue, come diceva David Hume, alle quali tuttavia attribuiremmo significato anche grazie alle interazioni sociali, di cui siamo partecipi. Nel discorso pubblico contemporaneo concetti come quello di inquinamento ambientale, acustico o elettromagnetico sono diventati per noi del tutto familiari. Tali concetti spesso sono stati messi in relazione con i processi identitari. In altri termini, siamo ormai abituati a ragionare sul fatto che noi siamo “anche” il cibo che mangiamo, l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo. Dalla riflessione di Gregory Bateson prima - e dalla scuola di Palo Alto poi - abbiamo appreso non soltanto che le parole possono nutrire e sostenere le identità individuali e collettive. Abbiamo imparato anche che ci sono parole che fanno ammalare: ascoltarle a lungo in determinate condizioni (come quelle del doppio vincolo, ad esempio) può condurre a disordini gravi della personalità, quali la schizofrenia. Ci sono parole dunque - o più precisamente strutture discorsive - capaci di minare la soggettività, oppure capaci di inquinare irrimediabilmente la vita istituzionale di un’organizzazione o di una collettività. Ma questo vale soltanto per i discorsi? E le immagini come funzionano: sono potenti quanto le parole? Nella società contemporanea una delle risorse fondamentali con cui interpretiamo la realtà e con cui diamo significato alla nostra esistenza è costituita dalle immagini. In altri termini, potremmo ugualmente affermare che noi siamo anche le immagini che vediamo? E come possiamo declinare questo concetto tenendo conto specificamente delle caratteristiche dei testi iconici e del contributo delle teorie della fruizione mediale? In altri termini, possiamo ipotizzare che il concetto di inquinamento visuale sia utile oppure dati i gradi di libertà del fruitore nei processi di ricezione è assolutamente fuorviante Il rapporto tra linguaggio verbale e azione sociale è stato al centro di numerose riflessioni nell’ambito delle scienze sociali. In particolare, la prospettiva sociologica ha teso a declinare questo tema rispetto alla costruzione delle identità sociali. Il costruttivismo radicale e la fenomenologia ci hanno insegnato che noi siamo anche le parole che ascoltiamo. La nostra soggettività avrebbe dunque anche un fondamento discorsivo: una collezione di percezioni discontinue, come diceva David Hume, alle quali tuttavia attribuiremmo significato anche grazie alle interazioni sociali, di cui siamo partecipi. Nel discorso pubblico contemporaneo concetti come quello di inquinamento ambientale, acustico o elettromagnetico sono diventati per noi del tutto familiari. Tali concetti spesso sono stati messi in relazione con i processi identitari. In altri termini, siamo ormai abituati a ragionare sul fatto che noi siamo “anche” il cibo che mangiamo, l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.