Il lungo saggio introduttivo al volume ripercorre – per la prima volta in assoluto – la ricchissima storia della fortuna di Dionigi di Alicarnasso in Europa: nella storia degli studi classici, nel pensiero politico, nella storiografia, nel teatro, nell’opera lirica, nel romanzo, nella poesia. Per tutto il Medioevo e poi per tutta l’età moderna Tito Livio ha offerto il racconto standard della storia romana delle origini. Accanto a lui, però, anche Dionigi ha goduto di una considerevole fortuna sin da quando venne tradotto in latino per la prima volta, nella seconda metà del Quattrocento. Al suo successo ha sicuramente contribuito un atteggiamento meno critico e severo nei confronti della tradizione leggendaria sui primordi della città e la grande abbondanza di dettagli – poco importa quanto credibili – che troviamo solo nelle Antichità di Roma. La storia della fondazione della città, come la si racconta ancora oggi nelle scuole elementari, proviene in massima parte da qui. Gli uomini del Rinascimento, che consideravano la storia una forma di etica applicata, apprezzavano inoltre moltissimo il gran numero di orazioni che Dionigi metteva in bocca ai suoi personaggi, perché davano l’impressione di assistere direttamente agli aventi e perché offrivano degli eleganti modelli di espressione e di comportamento. Lo ritenevano un esempio di virtù per i cittadini delle nuove generazioni. Non si trattava però solo di questo. Pochi autori antichi hanno mostrato tanto interesse quanto Dionigi ai rituali religiosi, raccontandocene origine e significato. Da questo punto di vista, come anche per i molti dati quantitativi che ci offre (per esempio sulla popolazione o sull’organizzazione dell’esercito), Dionigi è stato e rimane una fonte insostituibile. Ma per tutta l’età moderna, almeno da Machiavelli ai padri fondatori della costituzione americana (passando per Jean Bodin e Montesquieu), lo storico greco è stato letto come uno dei maggiori pensatori politici dell’antichità grazie all’analisi capillare delle istituzioni di Roma che accompagna passo passo il suo racconto. Per tre secoli Dionigi ha avuto un ruolo decisivo nell’evoluzione del pensiero politico occidentale, sino a essere stato uno dei principali ispiratori della costituzione degli Stati Uniti d’America. Tutto è cominciato con Machiavelli: il quale – come dimostro nell’introduzione – ha tratto da Dionigi gran parte delle sue idee sulla repubblica romana: dall’apprezzamento per la costituzione mista al giudizio favorevole per i tumulti non violenti, e dalla difesa di una magistratura eccezionale per contrastare le emergenze come la dittatura all’importanza che la generosità nell’accordare la cittadinanza ai nuovi venuti ha avrebbe avuto nella edificazione dell’impero mediterraneo. Se leggiamo lo storico greco accanto a Machiavelli ci rendiamo conto che l’opera più importante di quest’ultimo, i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, commenta le pagine di Livio riprendendo, spesso quali alla lettera, idee e spunti eleborati dal meno noto e accessibile Dionigi. Anzi, non appena teniamo presenti le Antichità romane, di colpo tutta una serie di enigmi che per più di un secolo hanno occupato la critica machiavelliana si risolvono facilmente. Dopo Machiavelli, per tre secoli, nessuno ha contestato la centralità della lezione di Dionigi. Per esempio è alle sue pagine che Montesquieu si è rivolto, al principio del Settecento, per elaborare la propria teoria della necessaria separazione del potere esecutivo, legislativo e giudiziario su cui si fondano tutte le costituzioni moderne: compresa quella italiana. Almeno fino al Romanticismo era molto più considerato di autori che al gusto successivo sono apparsi nettamente superiori come Erodoto e Tucidide. Tutti leggevano e amavano Dionigi, al quale venivano riconosciuti tre grandi punti di forza. Innanzitutto scriveva un greco pulitissimo, come i grandi autori ateniesi del V secolo avanti Cristo. Poi, a differenza degli storici romani, che davano per scontate troppe cose perchè si rivolgevano a un pubblico già informato, Dionigi, che scriveva per dei lettori meno al corrente sulle istituzioni civili e religiose, offriva una grande abbondanza di particolari preziosi. Infine, Dionigi era l’unico autore che si premurava di far conoscere ai suoi lettori non solo le azioni ma anche i pensieri dei più antichi personaggi della storia romana, dando loro direttamente la parola: come nel caso delle orazioni in cui Romolo spiega perché ha scelto per Roma una particolare forma di governo o in cui Marco Bruto infiamma i suoi concittadini a lottare contro Tarquino il Superbo e a fondare la repubblica. Una qualità tanto storiografica quanto propriamente narrativa. Dopo Vico e ancor più dopo il Romanticismo la fortuna di Dionigi andata rapidamente declinando. Tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, la nuova temperie romantica ha rapidamente relegato Dionigi tra gli autori minori se non addirittura trascurabili. Di colpo quelli che erano stati dei punti di forza della sua opera sono diventati dei difetti insopportabili. La sua lingua elegante è diventata il segno di una propensione imitativa piuttosto che originalmente creativa; il fatto di scrivere di Roma da greco è stato visto come un indizio di servilismo nei confronti del vincitore (gli italiani del Risorgimeto vedevano facilmente in lui un antesignano degli intellettuali austriacanti disinteressati alla causa nazionale); la sua abbondanza di dettagli sulla storia più remota (e dunqe più incerta) ha costituito la prova che si trattava di un autore credulo o disinteressato alla verità storica. E dunque, in definitiva, inaffidabile. Ci sono però delle eccezioni di rilievo. A Leopardi, per esempio, interessavano soprattutto due cose nella storia di Roma di Dionigi: lo stile, esemplato su quello dei grandi autori della letteratura greca del V secolo, e le sue testimonianze a proposito dell’esistenza di antichissimi canti popolari sugli eroi del periodo repubblicano. Pochi anni prima il grande studioso danese Barthold Georg Niebuhr aveva avanzato un’originalissima rilettura della più remota storia romana fondata proprio sull’idea che gli antichi carmina conservassero la memoria poetica della plebe non diversamente da quanto era successo in Germania con il ciclo dei Nibelunghi (laddove invece gli annali dei pontefici avrebbero tramandato il punto di vista dei patrizi sugli stessi eventi). Questi Romani letti attraverso gli antichi Germani ebbero un grande successo nell’Ottocento romantico e – anche se oggi nessuno accetta più questa ricostruzione – non sorprende che Leopardi fosse affascinato da questo nesso originario tra storia e poesia e che abbia guardato all’ipotesi dello storico danese con tanto favore. Poche sono state le edizioni e pochissimi le ricerche su Dionigi come storico dopo la condanna dei romantici. In Italia, per esempio, tra gli anni venti dell’Ottocento e oggi c’è stata una sola traduzione. Ma, singolarmente, italiani sono tutti gli studiosi delle rarissime opere sulle Antichità romane, cioè Domenico Musti ed Emilio Gabba. Non credo di esagerare però se dico che questo libro è il primo vero di restituire a Dionigi il posto che gli spetta nella cultura occidentale. Gli amplissimi apparati dell’edizione, che documentano la sua importanza decisiva per comprendere il pensiero politico, la tragedia e la pittura europea dal Cinque al Settecento, sono stati pensati appositamente con questo scopo. Mi auguro che il numero di prove accumulate sia sufficiente a convincere studiosi che è arrivato il momento di revocare il bando imposto dalla cultura romantica e provare a prendere sul serio l’entusiasmo con cui personalità tanto diverse quali Machiavelli, Corneille, Rubens, Calderon de la Barca, Thomas Jefferson e Beethoven hanno guardato alle Antichità romane.
Pedulla', G. (2010). Giro d’Europa. Le mille vite di Dionigi di Alicarnasso (XV-XIX secolo), LIX-CLIX.
Giro d’Europa. Le mille vite di Dionigi di Alicarnasso (XV-XIX secolo)
PEDULLA', Gabriele
2010-01-01
Abstract
Il lungo saggio introduttivo al volume ripercorre – per la prima volta in assoluto – la ricchissima storia della fortuna di Dionigi di Alicarnasso in Europa: nella storia degli studi classici, nel pensiero politico, nella storiografia, nel teatro, nell’opera lirica, nel romanzo, nella poesia. Per tutto il Medioevo e poi per tutta l’età moderna Tito Livio ha offerto il racconto standard della storia romana delle origini. Accanto a lui, però, anche Dionigi ha goduto di una considerevole fortuna sin da quando venne tradotto in latino per la prima volta, nella seconda metà del Quattrocento. Al suo successo ha sicuramente contribuito un atteggiamento meno critico e severo nei confronti della tradizione leggendaria sui primordi della città e la grande abbondanza di dettagli – poco importa quanto credibili – che troviamo solo nelle Antichità di Roma. La storia della fondazione della città, come la si racconta ancora oggi nelle scuole elementari, proviene in massima parte da qui. Gli uomini del Rinascimento, che consideravano la storia una forma di etica applicata, apprezzavano inoltre moltissimo il gran numero di orazioni che Dionigi metteva in bocca ai suoi personaggi, perché davano l’impressione di assistere direttamente agli aventi e perché offrivano degli eleganti modelli di espressione e di comportamento. Lo ritenevano un esempio di virtù per i cittadini delle nuove generazioni. Non si trattava però solo di questo. Pochi autori antichi hanno mostrato tanto interesse quanto Dionigi ai rituali religiosi, raccontandocene origine e significato. Da questo punto di vista, come anche per i molti dati quantitativi che ci offre (per esempio sulla popolazione o sull’organizzazione dell’esercito), Dionigi è stato e rimane una fonte insostituibile. Ma per tutta l’età moderna, almeno da Machiavelli ai padri fondatori della costituzione americana (passando per Jean Bodin e Montesquieu), lo storico greco è stato letto come uno dei maggiori pensatori politici dell’antichità grazie all’analisi capillare delle istituzioni di Roma che accompagna passo passo il suo racconto. Per tre secoli Dionigi ha avuto un ruolo decisivo nell’evoluzione del pensiero politico occidentale, sino a essere stato uno dei principali ispiratori della costituzione degli Stati Uniti d’America. Tutto è cominciato con Machiavelli: il quale – come dimostro nell’introduzione – ha tratto da Dionigi gran parte delle sue idee sulla repubblica romana: dall’apprezzamento per la costituzione mista al giudizio favorevole per i tumulti non violenti, e dalla difesa di una magistratura eccezionale per contrastare le emergenze come la dittatura all’importanza che la generosità nell’accordare la cittadinanza ai nuovi venuti ha avrebbe avuto nella edificazione dell’impero mediterraneo. Se leggiamo lo storico greco accanto a Machiavelli ci rendiamo conto che l’opera più importante di quest’ultimo, i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, commenta le pagine di Livio riprendendo, spesso quali alla lettera, idee e spunti eleborati dal meno noto e accessibile Dionigi. Anzi, non appena teniamo presenti le Antichità romane, di colpo tutta una serie di enigmi che per più di un secolo hanno occupato la critica machiavelliana si risolvono facilmente. Dopo Machiavelli, per tre secoli, nessuno ha contestato la centralità della lezione di Dionigi. Per esempio è alle sue pagine che Montesquieu si è rivolto, al principio del Settecento, per elaborare la propria teoria della necessaria separazione del potere esecutivo, legislativo e giudiziario su cui si fondano tutte le costituzioni moderne: compresa quella italiana. Almeno fino al Romanticismo era molto più considerato di autori che al gusto successivo sono apparsi nettamente superiori come Erodoto e Tucidide. Tutti leggevano e amavano Dionigi, al quale venivano riconosciuti tre grandi punti di forza. Innanzitutto scriveva un greco pulitissimo, come i grandi autori ateniesi del V secolo avanti Cristo. Poi, a differenza degli storici romani, che davano per scontate troppe cose perchè si rivolgevano a un pubblico già informato, Dionigi, che scriveva per dei lettori meno al corrente sulle istituzioni civili e religiose, offriva una grande abbondanza di particolari preziosi. Infine, Dionigi era l’unico autore che si premurava di far conoscere ai suoi lettori non solo le azioni ma anche i pensieri dei più antichi personaggi della storia romana, dando loro direttamente la parola: come nel caso delle orazioni in cui Romolo spiega perché ha scelto per Roma una particolare forma di governo o in cui Marco Bruto infiamma i suoi concittadini a lottare contro Tarquino il Superbo e a fondare la repubblica. Una qualità tanto storiografica quanto propriamente narrativa. Dopo Vico e ancor più dopo il Romanticismo la fortuna di Dionigi andata rapidamente declinando. Tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, la nuova temperie romantica ha rapidamente relegato Dionigi tra gli autori minori se non addirittura trascurabili. Di colpo quelli che erano stati dei punti di forza della sua opera sono diventati dei difetti insopportabili. La sua lingua elegante è diventata il segno di una propensione imitativa piuttosto che originalmente creativa; il fatto di scrivere di Roma da greco è stato visto come un indizio di servilismo nei confronti del vincitore (gli italiani del Risorgimeto vedevano facilmente in lui un antesignano degli intellettuali austriacanti disinteressati alla causa nazionale); la sua abbondanza di dettagli sulla storia più remota (e dunqe più incerta) ha costituito la prova che si trattava di un autore credulo o disinteressato alla verità storica. E dunque, in definitiva, inaffidabile. Ci sono però delle eccezioni di rilievo. A Leopardi, per esempio, interessavano soprattutto due cose nella storia di Roma di Dionigi: lo stile, esemplato su quello dei grandi autori della letteratura greca del V secolo, e le sue testimonianze a proposito dell’esistenza di antichissimi canti popolari sugli eroi del periodo repubblicano. Pochi anni prima il grande studioso danese Barthold Georg Niebuhr aveva avanzato un’originalissima rilettura della più remota storia romana fondata proprio sull’idea che gli antichi carmina conservassero la memoria poetica della plebe non diversamente da quanto era successo in Germania con il ciclo dei Nibelunghi (laddove invece gli annali dei pontefici avrebbero tramandato il punto di vista dei patrizi sugli stessi eventi). Questi Romani letti attraverso gli antichi Germani ebbero un grande successo nell’Ottocento romantico e – anche se oggi nessuno accetta più questa ricostruzione – non sorprende che Leopardi fosse affascinato da questo nesso originario tra storia e poesia e che abbia guardato all’ipotesi dello storico danese con tanto favore. Poche sono state le edizioni e pochissimi le ricerche su Dionigi come storico dopo la condanna dei romantici. In Italia, per esempio, tra gli anni venti dell’Ottocento e oggi c’è stata una sola traduzione. Ma, singolarmente, italiani sono tutti gli studiosi delle rarissime opere sulle Antichità romane, cioè Domenico Musti ed Emilio Gabba. Non credo di esagerare però se dico che questo libro è il primo vero di restituire a Dionigi il posto che gli spetta nella cultura occidentale. Gli amplissimi apparati dell’edizione, che documentano la sua importanza decisiva per comprendere il pensiero politico, la tragedia e la pittura europea dal Cinque al Settecento, sono stati pensati appositamente con questo scopo. Mi auguro che il numero di prove accumulate sia sufficiente a convincere studiosi che è arrivato il momento di revocare il bando imposto dalla cultura romantica e provare a prendere sul serio l’entusiasmo con cui personalità tanto diverse quali Machiavelli, Corneille, Rubens, Calderon de la Barca, Thomas Jefferson e Beethoven hanno guardato alle Antichità romane.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.