La monografia si apre con un capitolo intitolato alle “vicende dell’unità sindacale”, nel quale l’A. percorre la storia del movimento sindacale italiano dal Patto di Roma ai giorni nostri, ponendo in evidenza fin dalle prime pagine come questa storia sia tutta un alternarsi di periodi caratterizzati dall’unità d’azione fra le tre confederazioni maggiori e di periodi caratterizzati dall’azione separata, dissensi e contrasti. Segue, nel secondo capitolo, un esame dell’evoluzione della dottrina giuslavoristica italiana in tema di contratto collettivo di diritto comune, ma anche della giurisprudenza e in particolare di quella costituzionale, fino a quello che l’A. indica come il “radicamento giurisprudenziale e dottrinale della nozione di autonomia privata collettiva”, compiutosi negli anni ’80; nonché della legislazione che ha progressivamente supportato l’estensione dell’efficacia dei contratti collettivi anche al di fuori della cerchia degli iscritti ai sindacati stipulanti e che nel settore pubblico è giunta a costruire un sistema compiuto di diritto sindacale non più soltanto “transitorio”. La trattazione giunge così alla fine degli anni ’90 e all’ultima, grave rottura dell’unità sindacale, nella legislatura che è oggi agli sgoccioli, con la firma del Patto per l’Italia da parte di Cisl e Uil e il porsi da parte della Cgil “alla guida dell’opposizione sociale”; vicenda, questa, che mette profondamente in discussione la costruzione del contratto collettivo e della sua efficacia cui la dottrina era pervenuta – non senza difficoltà, ma con un risultato finale tutto sommato largamente condiviso nel corso dell’ultimo mezzo secolo: “a partire dalla fine degli anni ’80 – osserva l’A. all’inizio del capitolo conclusivo – l’edificazione dell’attuale sistema sindacale, da parte della dottrina e del legislatore, è avvenuta assumendo l’unicità o l’unità del movimento sindacale quale dato necessario o, addirittura, ontologicamente preesistente”, dato che invece al volgere del secolo improvvisamente appare in tutta la sua inconsistenza; donde il riproporsi della questione irrisolta della selezione del soggetto sindacale abilitato a una contrattazione collettiva dotata di efficacia. A.P. risolve la questione – nel contesto ordinamentale attuale – argomentando a favore della legittimità costituzionale della soluzione adottata con il decreto legislativo n. 276/2003, che attribuisce la titolarità dell’autonomia collettiva, “congiuntamente e disgiuntamente, a tutte le organizzazioni sindacali che siano ... comparativamente più rappresentative”: questo criterio, osserva l’A., “si presenta idoneo non solo ad assecondare la possibilità di una contrattazione separata, ma anche, nel caso patologico della contrattazione collettiva pirata, a consentire attraverso il giudizio di rappresentatività comparata un apprezzamento storico dell’attività negoziale svolta in termini di riferibilità al complesso degli interessi della classe lavoratrice. In questa ipotesi, del resto, la comparazione tra le associazioni sindacali più rappresentative non solo deve essere eseguita necessariamente a livello nazionale, stante la natura degli interessi in giuoco e la conseguente ‘ratio’ del rinvio ordinamentale destinato a recepire un risultato di equilibrato bilanciamento di valori costituzionali, ma impone che l’accertamento della rappresentatività effettiva avvenga mediante l’utilizzazione di criteri adeguati all’effettiva verifica della genuinità del conflitto o dell’equilibrio dello scambio tra sacrifici e certezze raggiunto nella gestione della crisi” (qui il discorso sembra perdere in nitidezza). Vengono quindi esaminate le conseguenze pratiche della costruzione proposta, sia in riferimento al caso della contrattazione separata “acquisitiva” o “additiva”, sia nel caso della contrattazione “ablativa”, anche in riferimento alla questione del “diritto alla trattativa” e della “riserva negoziale”. Il discorso finisce così necessariamente per investire la vicenda che ha fortemente agitato le acque del nostro sistema di relazioni sindacali nell’ultimo quinquennio: quella dei rinnovi “separati” e ultimamente delle insuperate difficoltà di rinnovo unitario del contratto collettivo del settore metalmeccanico; l’A. conclude in proposito osservando, condivisibilmente, che “se l’intero sistema di relazioni collettive è retto dal protocollo del ’93, la Cgil è componente determinante di quel sistema: così che il relegare il suo sindacato nel settore storico di riferimento, quello dei metalmeccanici, in una posizione subalterna quanto all’agibilità del sistema regolativo complessivo, potrebbe determinare l’esigenza insormontabile di risolvere il sistema stesso attraverso l’attivazione del potere di disdetta” (del protocollo medesimo). La realtà è che il sistema fondato sul protocollo del 1993, del quale la Cgil oggi chiede che non si muti una virgola e che anche la Confindustria (con il suo documento pubblicato il 22 settembre 2005) mostra di considerare ancora sostanzialmente meritevole di conferma, sia pure con qualche ritocco, è in realtà in una crisi profonda; anzi, forse, nei fatti già non esiste più. Ma riempire il vuoto che esso lascia con i soli materiali elaborati da dottrina e giurisprudenza nel mezzo secolo passato appare davvero molto difficile

Pessi, A. (2007). Unità sindacale e autonomia collettiva. TORINO : Giappichelli.

Unità sindacale e autonomia collettiva

PESSI, ANNALISA
2007-01-01

Abstract

La monografia si apre con un capitolo intitolato alle “vicende dell’unità sindacale”, nel quale l’A. percorre la storia del movimento sindacale italiano dal Patto di Roma ai giorni nostri, ponendo in evidenza fin dalle prime pagine come questa storia sia tutta un alternarsi di periodi caratterizzati dall’unità d’azione fra le tre confederazioni maggiori e di periodi caratterizzati dall’azione separata, dissensi e contrasti. Segue, nel secondo capitolo, un esame dell’evoluzione della dottrina giuslavoristica italiana in tema di contratto collettivo di diritto comune, ma anche della giurisprudenza e in particolare di quella costituzionale, fino a quello che l’A. indica come il “radicamento giurisprudenziale e dottrinale della nozione di autonomia privata collettiva”, compiutosi negli anni ’80; nonché della legislazione che ha progressivamente supportato l’estensione dell’efficacia dei contratti collettivi anche al di fuori della cerchia degli iscritti ai sindacati stipulanti e che nel settore pubblico è giunta a costruire un sistema compiuto di diritto sindacale non più soltanto “transitorio”. La trattazione giunge così alla fine degli anni ’90 e all’ultima, grave rottura dell’unità sindacale, nella legislatura che è oggi agli sgoccioli, con la firma del Patto per l’Italia da parte di Cisl e Uil e il porsi da parte della Cgil “alla guida dell’opposizione sociale”; vicenda, questa, che mette profondamente in discussione la costruzione del contratto collettivo e della sua efficacia cui la dottrina era pervenuta – non senza difficoltà, ma con un risultato finale tutto sommato largamente condiviso nel corso dell’ultimo mezzo secolo: “a partire dalla fine degli anni ’80 – osserva l’A. all’inizio del capitolo conclusivo – l’edificazione dell’attuale sistema sindacale, da parte della dottrina e del legislatore, è avvenuta assumendo l’unicità o l’unità del movimento sindacale quale dato necessario o, addirittura, ontologicamente preesistente”, dato che invece al volgere del secolo improvvisamente appare in tutta la sua inconsistenza; donde il riproporsi della questione irrisolta della selezione del soggetto sindacale abilitato a una contrattazione collettiva dotata di efficacia. A.P. risolve la questione – nel contesto ordinamentale attuale – argomentando a favore della legittimità costituzionale della soluzione adottata con il decreto legislativo n. 276/2003, che attribuisce la titolarità dell’autonomia collettiva, “congiuntamente e disgiuntamente, a tutte le organizzazioni sindacali che siano ... comparativamente più rappresentative”: questo criterio, osserva l’A., “si presenta idoneo non solo ad assecondare la possibilità di una contrattazione separata, ma anche, nel caso patologico della contrattazione collettiva pirata, a consentire attraverso il giudizio di rappresentatività comparata un apprezzamento storico dell’attività negoziale svolta in termini di riferibilità al complesso degli interessi della classe lavoratrice. In questa ipotesi, del resto, la comparazione tra le associazioni sindacali più rappresentative non solo deve essere eseguita necessariamente a livello nazionale, stante la natura degli interessi in giuoco e la conseguente ‘ratio’ del rinvio ordinamentale destinato a recepire un risultato di equilibrato bilanciamento di valori costituzionali, ma impone che l’accertamento della rappresentatività effettiva avvenga mediante l’utilizzazione di criteri adeguati all’effettiva verifica della genuinità del conflitto o dell’equilibrio dello scambio tra sacrifici e certezze raggiunto nella gestione della crisi” (qui il discorso sembra perdere in nitidezza). Vengono quindi esaminate le conseguenze pratiche della costruzione proposta, sia in riferimento al caso della contrattazione separata “acquisitiva” o “additiva”, sia nel caso della contrattazione “ablativa”, anche in riferimento alla questione del “diritto alla trattativa” e della “riserva negoziale”. Il discorso finisce così necessariamente per investire la vicenda che ha fortemente agitato le acque del nostro sistema di relazioni sindacali nell’ultimo quinquennio: quella dei rinnovi “separati” e ultimamente delle insuperate difficoltà di rinnovo unitario del contratto collettivo del settore metalmeccanico; l’A. conclude in proposito osservando, condivisibilmente, che “se l’intero sistema di relazioni collettive è retto dal protocollo del ’93, la Cgil è componente determinante di quel sistema: così che il relegare il suo sindacato nel settore storico di riferimento, quello dei metalmeccanici, in una posizione subalterna quanto all’agibilità del sistema regolativo complessivo, potrebbe determinare l’esigenza insormontabile di risolvere il sistema stesso attraverso l’attivazione del potere di disdetta” (del protocollo medesimo). La realtà è che il sistema fondato sul protocollo del 1993, del quale la Cgil oggi chiede che non si muti una virgola e che anche la Confindustria (con il suo documento pubblicato il 22 settembre 2005) mostra di considerare ancora sostanzialmente meritevole di conferma, sia pure con qualche ritocco, è in realtà in una crisi profonda; anzi, forse, nei fatti già non esiste più. Ma riempire il vuoto che esso lascia con i soli materiali elaborati da dottrina e giurisprudenza nel mezzo secolo passato appare davvero molto difficile
2007
978-88-348-7314-4
Pessi, A. (2007). Unità sindacale e autonomia collettiva. TORINO : Giappichelli.
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