Infedeltà patrimoniale e offesa al patrimonio nella disciplina penale dei gruppi di società (Napoli, Jovene, 2006) Abstract redatto dall’autore ai fini della valutazione della ricerca L’introduzione dell’art. 2634 c.c., alla luce del suo terzo comma, consacra anche nel campo del diritto penale la rilevanza dell’impresa di gruppo, anzitutto – ma non solo – in riferimento alla figura dell’infedeltà patrimoniale. Centrale appare la disposizione, là dove esclude l’ingiustizia del profitto, se «compensato dai vantaggi» per la società cui si imputa un certo atto di disposizione patrimoniale o per il gruppo di appartenenza. Contrariamente a un vasto indirizzo interpretativo non bisogna tuttavia credere che il senso della disposizione sia quello di escludere, in virtù del meccanismo compensativo, la sussistenza del danno patrimoniale che costituisce l’evento della condotta infedele. Al contrario: secondo la tesi coltivata nella monografia, l’assenza di pregiudizio patrimoniale, sia pur derivante dalla compensazione con vantaggi corrispettivi, preclude l’illecito già alla luce dei princìpi generali del sistema nonché dei contenuti della particolare fattispecie considerata; sì che se l’art. 2634, co. 3, c.c. si limitasse a confermare tale conclusione ne risulterebbe largamente scemata la portata innovatrice. Invero, nei reati offensivi del patrimonio, tra i quali l’infedeltà patrimoniale, la possibilità che un iniziale impoverimento sia successivamente compensato da un successivo arricchimento a favore del medesimo soggetto, con conseguente difetto di pregiudizio a suo carico, sebbene meno approfondita dalla dottrina italiana, è ampiamente studiata da quella tedesca, che proprio allo scopo di tener conto di vicende come quelle ipotizzate promuove nella valutazione del danno il criterio della Globalsaldierung. Non vi sono ragioni che ostacolino un analogo sviluppo interpretativo nel sistema italiano; anzi, una corretta visione dell’offesa, al di là della concezione di «patrimonio» che si coltivi in sede penale, conduce senz’altro a identiche conclusioni. Ne deriva che l’art. 2634, co. 3, lungi dal voler identificare i contenuti o i limiti del danno patrimoniale rilevante ai fini dell’art. 2634 c.c. o di altre fattispecie configurate nel sistema, si preoccupa in realtà di definire i limiti della condotta tipica di infedeltà, dal punto di vista dell’abuso dei poteri gestori. In altri termini la disposizione chiarisce che l’atto autenticamente gestorio, proiettato al perseguimento dell’interesse sociale, resta penalmente non censurabile ancorché obiettivamente produttivo di una diminuzione patrimoniale. Solo in tal senso può cogliersi la ragione per cui l’art. 2634, co. 3, c.c. operi sia nel caso di vantaggi conseguiti, sia nel caso di vantaggi (non conseguiti ma) fondatamente prevedibili all’epoca dell’atto o dell’operazione compiuta. Ecco ancora perché il vantaggio, se pur non corrispondente al danno nel suo preciso ammontare, ma pur sempre di entità significativa, rileva nell’ottica della legge come indice obiettivo di una logica genuinamente economica, sottintesa alla gestione dell’impresa (restando fermo che il vantaggio, se equivalente o addirittura prevalente rispetto all’iniziale ammanco, escluderebbe a monte già un danno patrimoniale e quindi un evento offensivo tout court). Quanto precede vale a anche a decifrare il rapporto tra la regolazione penale e quella civile dei gruppi. L’esigenza di raccordo chiama in causa, in particolare, l’art. 2497 c.c., da molti interpreti considerato più restrittivo della disposizione penalistica, perché tale da esigere una compensazione ‘aritmetica’ dell’iniziale svantaggio procurato a una certa società, mentre il legislatore penale si accontenterebbe di un vantaggio ‘prevedibile’. In realtà una visione equilibrata depone nel senso che il venir meno di un abuso gestorio, nelle ipotesi dell’art. 2634, co. 3, c.c., non possa non riflettersi anche sul piano civilistico, negando la violazione dei princìpi di corretta gestione della società e più esattamente di fedele perseguimento dell’interesse sociale, quale emerge dall’appartenenza al gruppo. Naturalmente l’art. 2634 co. 3 c.c. dètta una disposizione non confinabile nell’ambito della sola infedeltà patrimoniale, ma con ricadute sistematiche più ampie, solo tardivamente e, tutto sommato, ancora solo parzialmente riconosciute dalla giurisprudenza. Basti pensare a fattispecie come l’appropriazione indebita o la bancarotta patrimoniale per comprendere come risulti sistematicamente arbitrario confinare la regola reperibile nell’art. 2634 c.c. agli illeciti societari, senza tener conto delle possibili ricadute della gestione sull’insolvenza o sul fallimento della società: non potendo comunque non considerare applicabili i criteri risultanti dalla disposizione, che sul piano positivo definiscono un essenziale contenuto lecito della gestione societaria. La monografia esamina poi, nei due conclusivi capitoli, i problemi legati alla disciplina del concorso di persone, analizzando criticamente indirizzi che finiscono coll’estendere impropriamente la responsabilità penale, perché addebitano a soggetti esterni, operanti nel gruppo, scelte riservate agli amministratori di una particolare società. A simili indirizzi si oppone l’autonomia giuridicamente garantita a quanti siano investiti dei poteri amministrativi, ponendosi, la predetta autonomia, come fattore ‘normativo’ che riduce o annulla i condizionamenti esterni, salva l’ipotesi di un’amministrazione meramente apparente, soppiantata da una realtà diversa. In quest’ultimo caso, tuttavia, lo schema giuridico è quello di una responsabilità dell’amministratore ‘reale’, se pur non formalmente tale, piuttosto che lo schema del concorso dell’estraneo nell’illecito dell’amministratore ‘asservito’. Né si lascia reperire un obbligo di garanzia, che possa valorizzarsi ai sensi dell’art. 40, co. 2, c.p., a carico degli amministratori della capogruppo o di società diverse da quella cui si imputi una certa operazione. Il capitolo conclusivo affronta il tema della responsabilità da reato dell’ente, con un approfondimento delle ragioni che impongono di escludere la responsabilità dell’ente medesimo per il delitto di infedeltà patrimoniale.

Masucci, M. (2006). Infedeltà patrimoniale e offesa al patrimonio nella disciplina penale dei gruppi di società. NAPOLI : Jovene Editore.

Infedeltà patrimoniale e offesa al patrimonio nella disciplina penale dei gruppi di società

MASUCCI, MASSIMILIANO
2006-01-01

Abstract

Infedeltà patrimoniale e offesa al patrimonio nella disciplina penale dei gruppi di società (Napoli, Jovene, 2006) Abstract redatto dall’autore ai fini della valutazione della ricerca L’introduzione dell’art. 2634 c.c., alla luce del suo terzo comma, consacra anche nel campo del diritto penale la rilevanza dell’impresa di gruppo, anzitutto – ma non solo – in riferimento alla figura dell’infedeltà patrimoniale. Centrale appare la disposizione, là dove esclude l’ingiustizia del profitto, se «compensato dai vantaggi» per la società cui si imputa un certo atto di disposizione patrimoniale o per il gruppo di appartenenza. Contrariamente a un vasto indirizzo interpretativo non bisogna tuttavia credere che il senso della disposizione sia quello di escludere, in virtù del meccanismo compensativo, la sussistenza del danno patrimoniale che costituisce l’evento della condotta infedele. Al contrario: secondo la tesi coltivata nella monografia, l’assenza di pregiudizio patrimoniale, sia pur derivante dalla compensazione con vantaggi corrispettivi, preclude l’illecito già alla luce dei princìpi generali del sistema nonché dei contenuti della particolare fattispecie considerata; sì che se l’art. 2634, co. 3, c.c. si limitasse a confermare tale conclusione ne risulterebbe largamente scemata la portata innovatrice. Invero, nei reati offensivi del patrimonio, tra i quali l’infedeltà patrimoniale, la possibilità che un iniziale impoverimento sia successivamente compensato da un successivo arricchimento a favore del medesimo soggetto, con conseguente difetto di pregiudizio a suo carico, sebbene meno approfondita dalla dottrina italiana, è ampiamente studiata da quella tedesca, che proprio allo scopo di tener conto di vicende come quelle ipotizzate promuove nella valutazione del danno il criterio della Globalsaldierung. Non vi sono ragioni che ostacolino un analogo sviluppo interpretativo nel sistema italiano; anzi, una corretta visione dell’offesa, al di là della concezione di «patrimonio» che si coltivi in sede penale, conduce senz’altro a identiche conclusioni. Ne deriva che l’art. 2634, co. 3, lungi dal voler identificare i contenuti o i limiti del danno patrimoniale rilevante ai fini dell’art. 2634 c.c. o di altre fattispecie configurate nel sistema, si preoccupa in realtà di definire i limiti della condotta tipica di infedeltà, dal punto di vista dell’abuso dei poteri gestori. In altri termini la disposizione chiarisce che l’atto autenticamente gestorio, proiettato al perseguimento dell’interesse sociale, resta penalmente non censurabile ancorché obiettivamente produttivo di una diminuzione patrimoniale. Solo in tal senso può cogliersi la ragione per cui l’art. 2634, co. 3, c.c. operi sia nel caso di vantaggi conseguiti, sia nel caso di vantaggi (non conseguiti ma) fondatamente prevedibili all’epoca dell’atto o dell’operazione compiuta. Ecco ancora perché il vantaggio, se pur non corrispondente al danno nel suo preciso ammontare, ma pur sempre di entità significativa, rileva nell’ottica della legge come indice obiettivo di una logica genuinamente economica, sottintesa alla gestione dell’impresa (restando fermo che il vantaggio, se equivalente o addirittura prevalente rispetto all’iniziale ammanco, escluderebbe a monte già un danno patrimoniale e quindi un evento offensivo tout court). Quanto precede vale a anche a decifrare il rapporto tra la regolazione penale e quella civile dei gruppi. L’esigenza di raccordo chiama in causa, in particolare, l’art. 2497 c.c., da molti interpreti considerato più restrittivo della disposizione penalistica, perché tale da esigere una compensazione ‘aritmetica’ dell’iniziale svantaggio procurato a una certa società, mentre il legislatore penale si accontenterebbe di un vantaggio ‘prevedibile’. In realtà una visione equilibrata depone nel senso che il venir meno di un abuso gestorio, nelle ipotesi dell’art. 2634, co. 3, c.c., non possa non riflettersi anche sul piano civilistico, negando la violazione dei princìpi di corretta gestione della società e più esattamente di fedele perseguimento dell’interesse sociale, quale emerge dall’appartenenza al gruppo. Naturalmente l’art. 2634 co. 3 c.c. dètta una disposizione non confinabile nell’ambito della sola infedeltà patrimoniale, ma con ricadute sistematiche più ampie, solo tardivamente e, tutto sommato, ancora solo parzialmente riconosciute dalla giurisprudenza. Basti pensare a fattispecie come l’appropriazione indebita o la bancarotta patrimoniale per comprendere come risulti sistematicamente arbitrario confinare la regola reperibile nell’art. 2634 c.c. agli illeciti societari, senza tener conto delle possibili ricadute della gestione sull’insolvenza o sul fallimento della società: non potendo comunque non considerare applicabili i criteri risultanti dalla disposizione, che sul piano positivo definiscono un essenziale contenuto lecito della gestione societaria. La monografia esamina poi, nei due conclusivi capitoli, i problemi legati alla disciplina del concorso di persone, analizzando criticamente indirizzi che finiscono coll’estendere impropriamente la responsabilità penale, perché addebitano a soggetti esterni, operanti nel gruppo, scelte riservate agli amministratori di una particolare società. A simili indirizzi si oppone l’autonomia giuridicamente garantita a quanti siano investiti dei poteri amministrativi, ponendosi, la predetta autonomia, come fattore ‘normativo’ che riduce o annulla i condizionamenti esterni, salva l’ipotesi di un’amministrazione meramente apparente, soppiantata da una realtà diversa. In quest’ultimo caso, tuttavia, lo schema giuridico è quello di una responsabilità dell’amministratore ‘reale’, se pur non formalmente tale, piuttosto che lo schema del concorso dell’estraneo nell’illecito dell’amministratore ‘asservito’. Né si lascia reperire un obbligo di garanzia, che possa valorizzarsi ai sensi dell’art. 40, co. 2, c.p., a carico degli amministratori della capogruppo o di società diverse da quella cui si imputi una certa operazione. Il capitolo conclusivo affronta il tema della responsabilità da reato dell’ente, con un approfondimento delle ragioni che impongono di escludere la responsabilità dell’ente medesimo per il delitto di infedeltà patrimoniale.
2006
88-243-1642-5
Masucci, M. (2006). Infedeltà patrimoniale e offesa al patrimonio nella disciplina penale dei gruppi di società. NAPOLI : Jovene Editore.
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