Ars est celare artem. Da Aristotele a Duchamp Si tratta di un saggio di storia delle idee estetiche, che intende ricostruire la vicenda di quella concezione dell’arte che può essere riassunta nel motto citato nel titolo: ars est celare artem. L’origine di questo detto è rintracciata nella retorica antica, in particolare in Aristotele: la miglior retorica è quella che non si nota. Se chi ascolta si accorge che stiamo usando degli artifici, l’effetto è compromesso. Se faccio trasparire le mie capacità, se mi presento come esperto, metto in sospetto i miei ascoltatori. Ecco perché il principio della dissimulatio artis è fondamentale nell’eloquenza giudiziaria, là dove si tratta di convincere i giudici, e può essere rintracciato nei maggiori teorici della retorica, da Cicerone a Quintiliano. Ma già nell’antichità troviamo interessanti applicazioni del principio in ambito stilistico, in particolare per quel che riguarda l’impiego delle figure retoriche, in particolare nell’anonimo Del Sublime. A partire dalla sua origine retorica, poi, il curioso paradosso secondo cui la vera arte è quella che si nota di meno compie un’inaspettata carriera, proliferando nei campi più lontani e disparati. Lo troviamo riferito alla cosmetica e al trucco femminile (dall’Ars amatoria di Ovidio al négligé savant della coquette di Chamfort) e messo in pratica dal dandy dell’Ottocento, in primis dal Beau Brummel, ma anche adattato all’arte dei giardini – e non può che esser così, dato che il detto sottende tutta una teoria del rapporto tra arte e natura – a partire da un passo celebre della Gerusalemme liberata, fino a diventare quasi un luogo comune nella riflessione sul giardino paesaggistico all’inglese; lo possiamo rintracciare nella teoria politica, in cui i concetti di simulazione e dissimulazione godono di particolare fortuna tra Cinque- e Seicento, ma soprattutto assurge ad un ruolo centrale nella teorie del comportamento in pubblico e delle buone maniere. Non per nulla la sua espressione più famosa è probabilmente il concetto di sprezzatura che troviamo nel Cortegiano di Baldassar Castiglione (“fuggir quanto più si po, e come un asperissimo e pericoloso scoglio, la affettazione, e, per dir forse una nuova parola, usar in ogni cosa una certa spezzatura, che nasconda l’arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi”), ed è proprio dalle pagine del Cortegiano che l’indagine del libro prende avvio. Attraverso la sprezzatura castiglionesca e le sue numerosissime propaggini nella trattatistica sull’uomo di corte e nei manuali di conversazione il detto ars est celare artem mostra le sue connessioni con il concetto di grazia e con la tematica del je ne sais quoi (alla quale l’autore aveva dedicato in precedenza una altro lavoro). Non solo da queste connessioni con concetti essenziali della storia dell’estetica traspare però l’interesse propriamente estetologico del libro. Attraverso la storia dell’ars est celare artem scopriamo infatti qualcosa di essenziale per l’idea stessa di arte: il suo essere sempre inevitabilmente regola e invenzione, tecnica e creatività, tradizione e innovazione. Scopriamo perché l’arte rifiuta di farsi chiudere in una formula, e si mantiene sempre insopprimibilmente aperta alla creazione. Il nostro motto può rivelarsi decisivo, allora, perfino per comprendere uno dei fenomeni del mondo dell’arte che più ha fatto scrivere di sé nel Novecento. Il ready-made si svela, in questa prospettiva, come un ultimo, radicale sforzo di cancellazione di ogni marca di artisticità, come un estremo, conseguente sforzo di nasconder l’arte nell’arte.
D'Angelo, P. (2005). Ars est celare artem. Da Aristotele a Duchamp. MACERATA : Quodlibet.
Ars est celare artem. Da Aristotele a Duchamp
D'ANGELO, Paolo
2005-01-01
Abstract
Ars est celare artem. Da Aristotele a Duchamp Si tratta di un saggio di storia delle idee estetiche, che intende ricostruire la vicenda di quella concezione dell’arte che può essere riassunta nel motto citato nel titolo: ars est celare artem. L’origine di questo detto è rintracciata nella retorica antica, in particolare in Aristotele: la miglior retorica è quella che non si nota. Se chi ascolta si accorge che stiamo usando degli artifici, l’effetto è compromesso. Se faccio trasparire le mie capacità, se mi presento come esperto, metto in sospetto i miei ascoltatori. Ecco perché il principio della dissimulatio artis è fondamentale nell’eloquenza giudiziaria, là dove si tratta di convincere i giudici, e può essere rintracciato nei maggiori teorici della retorica, da Cicerone a Quintiliano. Ma già nell’antichità troviamo interessanti applicazioni del principio in ambito stilistico, in particolare per quel che riguarda l’impiego delle figure retoriche, in particolare nell’anonimo Del Sublime. A partire dalla sua origine retorica, poi, il curioso paradosso secondo cui la vera arte è quella che si nota di meno compie un’inaspettata carriera, proliferando nei campi più lontani e disparati. Lo troviamo riferito alla cosmetica e al trucco femminile (dall’Ars amatoria di Ovidio al négligé savant della coquette di Chamfort) e messo in pratica dal dandy dell’Ottocento, in primis dal Beau Brummel, ma anche adattato all’arte dei giardini – e non può che esser così, dato che il detto sottende tutta una teoria del rapporto tra arte e natura – a partire da un passo celebre della Gerusalemme liberata, fino a diventare quasi un luogo comune nella riflessione sul giardino paesaggistico all’inglese; lo possiamo rintracciare nella teoria politica, in cui i concetti di simulazione e dissimulazione godono di particolare fortuna tra Cinque- e Seicento, ma soprattutto assurge ad un ruolo centrale nella teorie del comportamento in pubblico e delle buone maniere. Non per nulla la sua espressione più famosa è probabilmente il concetto di sprezzatura che troviamo nel Cortegiano di Baldassar Castiglione (“fuggir quanto più si po, e come un asperissimo e pericoloso scoglio, la affettazione, e, per dir forse una nuova parola, usar in ogni cosa una certa spezzatura, che nasconda l’arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi”), ed è proprio dalle pagine del Cortegiano che l’indagine del libro prende avvio. Attraverso la sprezzatura castiglionesca e le sue numerosissime propaggini nella trattatistica sull’uomo di corte e nei manuali di conversazione il detto ars est celare artem mostra le sue connessioni con il concetto di grazia e con la tematica del je ne sais quoi (alla quale l’autore aveva dedicato in precedenza una altro lavoro). Non solo da queste connessioni con concetti essenziali della storia dell’estetica traspare però l’interesse propriamente estetologico del libro. Attraverso la storia dell’ars est celare artem scopriamo infatti qualcosa di essenziale per l’idea stessa di arte: il suo essere sempre inevitabilmente regola e invenzione, tecnica e creatività, tradizione e innovazione. Scopriamo perché l’arte rifiuta di farsi chiudere in una formula, e si mantiene sempre insopprimibilmente aperta alla creazione. Il nostro motto può rivelarsi decisivo, allora, perfino per comprendere uno dei fenomeni del mondo dell’arte che più ha fatto scrivere di sé nel Novecento. Il ready-made si svela, in questa prospettiva, come un ultimo, radicale sforzo di cancellazione di ogni marca di artisticità, come un estremo, conseguente sforzo di nasconder l’arte nell’arte.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.