il manifesto23 giugno 2005ArgentinaLa storia di “Pepe” che ha messo fine all’impunitàclaudio tognonatoLa Corte suprema argentina ha dichiarato martedì l’incostituzionalità delle Leggi di Punto Final e Obbedienza dovuta. Sono state annullate le leggi dell’impunità che, per vent’anni hanno lasciato in libertà tutti i militari che hanno ucciso, torturato e fatto scomparire migliaia di persone durante la ditttatura (1976-83). La sentenza del tribunale supremo riaprirà i processi che erano rimasti bloccati da queste norme.La Corte ha esaminato un caso, basta uno, per segnalare l’incongruenza di quelle norme con l’ordine giuridico internazionale e nazionale e dichiararne l’incostituzionalità. Ha preso in esame quello che riguarda la scomparsa di José Poblete, uno qualsiasi, un numero tra i 30.000 desaparecidos. Lo chiamavamo Pepe, aveva 19 anni quando l’ho conosciuto nella Villa del Bajo Belgrano, una “villa miseria”, così si chiamano quel gruppo di abitazioni precarie, di casucce di lamiera, senza fogne, né acqua corrente che negli anni ’70 sorgevano a Buenos Aires. Era nato in Cile e aveva avuto un incidente, era caduto da un treno che gli aveva sezionato tutte due le gambe. Pepe non si lamentava, con la sua carrozzella correva da una parte all’altra della borgata, riusciva a fare di tutto o quasi. Era venuto alla scuola, che era il centro del nostro gruppo di militanti, perché ad un centinaio di metri della Villa del Bajo Belgrano c’era un istituto di riabilitazione dove stava cercando di migliorare la sua condizione. Ricordo perfettamente la sua voce, con quell’inconfondibile accento cileno, il suo sorriso e la sua contagiosa voglia di vivere, di cambiare, di fare la rivoluzione. Nel Cile era riuscito a fuggire alla repressione di Pinochet e in Argentina veniva con noi ad ogni manifestazione. Collaborava insieme a noi per dare una vita più degna agli abitanti della baracopoli. Nel 1973 eravamo una quarantina i militanti che da fuori arrivavamo ogni giorno a fare “lavoro politico”. Ma la repressione cominciò a farsi evidente prima che arrivassero i militari al potere e già nei primi mesi del 1976 non era più possibile farsi vedere nella villa miseria, i suoi sinuosi vicoli interni, che avevamo imparato a conoscere a memoria, erano diventati troppo pericolosi anche per noi. Da allora non vidi più Pepe. Avevo avuto modo di conoscere anche Gertrudis Hlaczik, che era la sua fidanzata, ma di loro due non ho più avuto notizie. Per anni mi è rimasta la domanda: che sarà stato di lui? Solo molti anni dopo, già in Italia, leggendo un giornale argentino ho scoperto una storia molto simile, le coincidenze furono subito evidenti e infine la conferma è arrivata dall’Argentina: José Poblete era Pepe. All’epoca, per sicurezza, nessuno di noi sapeva il cognome dell’altro, mai una fotografia insieme. Eravamo consapevoli del rischio che correvamo. Il 28 novembre 1978 Pepe fu sequestrato in un appuntamento. Stessa sorte toccò a Gertrudis e la figlia pena nata. Tutti furono rinchiusi nel campo di concentramento dell’Olimpo. Lui fu visto per l’ultima volta il 29 gennaio 1979 mentre era portato nella sua sedia a rotelle. Due giorni dopo nel piazzale del campo c’era la sua sedia buttata in un angolo

Tognonato, C.A. (2005). Storia di "Pepe" che ha messo fine all'impunità.

Storia di "Pepe" che ha messo fine all'impunità

TOGNONATO, CLAUDIO ALBERTO
2005-01-01

Abstract

il manifesto23 giugno 2005ArgentinaLa storia di “Pepe” che ha messo fine all’impunitàclaudio tognonatoLa Corte suprema argentina ha dichiarato martedì l’incostituzionalità delle Leggi di Punto Final e Obbedienza dovuta. Sono state annullate le leggi dell’impunità che, per vent’anni hanno lasciato in libertà tutti i militari che hanno ucciso, torturato e fatto scomparire migliaia di persone durante la ditttatura (1976-83). La sentenza del tribunale supremo riaprirà i processi che erano rimasti bloccati da queste norme.La Corte ha esaminato un caso, basta uno, per segnalare l’incongruenza di quelle norme con l’ordine giuridico internazionale e nazionale e dichiararne l’incostituzionalità. Ha preso in esame quello che riguarda la scomparsa di José Poblete, uno qualsiasi, un numero tra i 30.000 desaparecidos. Lo chiamavamo Pepe, aveva 19 anni quando l’ho conosciuto nella Villa del Bajo Belgrano, una “villa miseria”, così si chiamano quel gruppo di abitazioni precarie, di casucce di lamiera, senza fogne, né acqua corrente che negli anni ’70 sorgevano a Buenos Aires. Era nato in Cile e aveva avuto un incidente, era caduto da un treno che gli aveva sezionato tutte due le gambe. Pepe non si lamentava, con la sua carrozzella correva da una parte all’altra della borgata, riusciva a fare di tutto o quasi. Era venuto alla scuola, che era il centro del nostro gruppo di militanti, perché ad un centinaio di metri della Villa del Bajo Belgrano c’era un istituto di riabilitazione dove stava cercando di migliorare la sua condizione. Ricordo perfettamente la sua voce, con quell’inconfondibile accento cileno, il suo sorriso e la sua contagiosa voglia di vivere, di cambiare, di fare la rivoluzione. Nel Cile era riuscito a fuggire alla repressione di Pinochet e in Argentina veniva con noi ad ogni manifestazione. Collaborava insieme a noi per dare una vita più degna agli abitanti della baracopoli. Nel 1973 eravamo una quarantina i militanti che da fuori arrivavamo ogni giorno a fare “lavoro politico”. Ma la repressione cominciò a farsi evidente prima che arrivassero i militari al potere e già nei primi mesi del 1976 non era più possibile farsi vedere nella villa miseria, i suoi sinuosi vicoli interni, che avevamo imparato a conoscere a memoria, erano diventati troppo pericolosi anche per noi. Da allora non vidi più Pepe. Avevo avuto modo di conoscere anche Gertrudis Hlaczik, che era la sua fidanzata, ma di loro due non ho più avuto notizie. Per anni mi è rimasta la domanda: che sarà stato di lui? Solo molti anni dopo, già in Italia, leggendo un giornale argentino ho scoperto una storia molto simile, le coincidenze furono subito evidenti e infine la conferma è arrivata dall’Argentina: José Poblete era Pepe. All’epoca, per sicurezza, nessuno di noi sapeva il cognome dell’altro, mai una fotografia insieme. Eravamo consapevoli del rischio che correvamo. Il 28 novembre 1978 Pepe fu sequestrato in un appuntamento. Stessa sorte toccò a Gertrudis e la figlia pena nata. Tutti furono rinchiusi nel campo di concentramento dell’Olimpo. Lui fu visto per l’ultima volta il 29 gennaio 1979 mentre era portato nella sua sedia a rotelle. Due giorni dopo nel piazzale del campo c’era la sua sedia buttata in un angolo
2005
Tognonato, C.A. (2005). Storia di "Pepe" che ha messo fine all'impunità.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11590/272063
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