«Tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere». Così, sulle note di questa luminosa sentenza aristotelica (Metaph. I 1, 980a21), si apre il Convivio dantesco. Che cosa si debba intendere per desiderio naturale Dante provvede a spiegarlo nelle righe immediatamente successive. Siffatto desiderio, egli dice, è un istinto messo da Dio in tutte le cose, in forza del quale ogni ente – animato o inanimato che sia - tende a svolgere quella particolare operazione che ne realizza la natura. Il desiderio naturale di sapere non è che un caso specifico (proprio della forma umana) di questo istinto: dire che «tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere» equivale a dire pertanto che nell’esercizio dell’operazione conoscitiva risiede la perfezione ultima della natura umana. Attraverso il concetto di desiderio naturale di sapere Dante dà dunque rilievo e concretezza psicologica ad una questione che va ben oltre i significati inclusi nella sentenza aristotelica, la questione del rapporto tra la natura umana e il suo fine ultimo (la perfezione dell’intelletto). Quella del desiderio naturale della scienza ci appare così una delle tante immagini, e forse la più suggestiva, di cui il Medioevo filosofico si è servito per descrivere il fatto che uno iato originario separa l’uomo dalla sua destinazione ontologica e che nondimeno a conseguire quella destinazione egli è naturaliter ordinato. Di qui la duplice fisionomia del desiderio naturale, che se da un lato rende esplicita e per così dire misura la “differenza” tra l’uomo e il suo proprio fine, dall’altro, in quanto energia protesa verso il traguardo, disposizione al suo conseguimento, assicura però che quel fine, ancorché non posseduto inizialmente, è tuttavia realizzabile, e anzi imperiosamente governa il dinamismo della sostanza, curvandone su di sé la traiettoria. Sul modo di intendere lo scarto dal quale il desiderio si origina e prende vita, quello tra possibilità della perfezione e perfezione in atto, i filosofi del medioevo hanno intensamente (e talvolta aspramente) dibattuto, taluni convinti che questa scissione non possa essere sanata se non nella vita ultraterrena e per grazia, allorché all’intelletto umano sarà dischiusa la visione di Dio (è ad esempio la posizione di Tommaso d’Aquino), altri persuasi invece che nell’uomo la perfezione del desiderio naturale debba poter essere raggiunta già in questa vita, per il tramite delle sole scienze filosofiche (è ciò che ritengono alcuni magistri della Facoltà delle arti di Parigi), e che dunque ad annullare lo scarto di cui si è detto basti la naturale attuazione della nostra potenza conoscitiva. Si intuisce allora perché il tema del desiderio naturale arrivi spesso ad intrecciarsi, e talvolta vi si confonda, col problema, ultimo e grandioso, della felicità umana, e con l’assillante interrogativo che sempre accompagna la riflessione medievale su di essa: fino a che punto l’uomo può dirsi causa della sua propria felicità? O detto altrimenti: fino a che punto la ragione umana è autonoma dalla fede, la natura dalla grazia? Questa stessa grave domanda risuona altresì in molte pagine dantesche, alcune delle quali sono tra le più alte che egli abbia mai scritto. E in effetti, sul nesso tra desiderio naturale della scienza e felicità umana il Poeta mostra di interrogarsi incessantemente, dal Convivio alla Commedia alla Monarchia, dispiegando una riflessione vasta e profonda, internamente contrastata, inquieta. Di tale riflessione il nostro volume prende in esame e ricostruisce la parte forse più cospicua, quella relativa al Convivio (la Commedia e le altre opere sono solo occasionalmente lambite), osservando il modo in cui essa si declina attraverso il trattato e ponendola a confronto con la speculazione che nei decenni precedenti, grosso modo dalla metà del XIII secolo, teologi e maestri dell’università parigina hanno dedicato al medesimo problema. Si è voluto con ciò contribuire, sia pure per un aspetto particolare (ma si è visto quanto importante), alla ricostruzione complessiva dei rapporti tra il pensiero di Dante, nella fattispecie il Dante del Convivio, e quel poderoso fenomeno culturale che va sotto il nome di aristotelismo scolastico; rapporti già messi in luce magistralmente da Bruno Nardi, ma che oggi necessitano forse di essere riconsiderati alla luce di quanto in merito all’aristotelismo (o meglio agli aristotelismi) del XIII secolo, in particolare a Parigi, la storiografia filosofica è venuta aggiungendo e precisando negli ultimi trent’anni circa, più o meno a partire dal fondamentale lavoro di Roland Hissette sulla censura del 1277 (Enquête sur les 219 articles condamnés à Paris le 7 mars 1277, Louvain-Paris 1977). Prescindendo dai risultati concretamente raggiunti, questa è la prospettiva secondo la quale ci siamo sforzati di condurre la nostra indagine. Il volume è diviso in due parti. La prima parte muove dal proemio del Convivio, che contiene l’esposizione più dettagliata del tema del desiderio naturale di sapere, e di qui passa a considerare i capitoli 16-21 del IV trattato, nei quali l’irrompere di un tema di indole per certi versi affine, ma a sua volta instabile e ricco di modulazioni interne, il tema della nobiltà umana, provoca il frastagliarsi del tema aristotelico dell’esordio in motivi tra loro disarmonici. Senza voler enfatizzare la drammaticità di questo confronto, che appartiene a Dante non meno che alla cultura del suo tempo, ci è sembrato opportuno far emergere, nell’analisi di questi capitoli del Convivio, l’attrito tra una visione “naturalistica” della perfezione umana, di matrice appunto aristotelica, e una concezione lato sensu “teologica” (ove la definizione arriva ad includere tanto motivi e suggestioni scritturali quanto le zone più ascetiche e rarefatte del peripatetismo arabo). Nella seconda parte del volume la questione del desiderio naturale di sapere è ripresa e osservata invece in quello che forse è il suo aspetto strutturalmente più impegnativo. Al centro dell’analisi è il capitolo XV del III trattato, nel quale Dante si chiede se l’uomo desideri naturalmente conoscere quelle realtà (Dio, la materia prima, l’eterno) la cui essenza trascende i limiti della ragione naturale. Questione grave ed impegnativa, evidentemente, giacché concerne i confini entro i quali la nostra conoscenza può estendersi, e più radicalmente, dato che ridurre all’atto la potenza conoscitiva significa entrare in possesso del sommo bene conseguibile sulla terra, concerne le condizioni stesse della felicità in questa vita. La risposta di Dante all’interrogativo, ancorché non ovvia («…con ciò sia cosa che conoscere di Dio…quello esso è, non sia possibile alla nostra natura, quello da noi naturalmente non è desiderato di sapere») presuppone tuttavia un dibattito intenso e ancora poco esplorato (almeno in rapporto al pensiero dantesco) che su questo punto si svolse in seno alla letteratura filosofica e teologica nella seconda metà del secolo XIII (e oltre). Il nostro studio ricostruisce i passaggi argomentativi nei quali si articola la tesi dantesca e al contempo traccia i contorni del dibattito scolastico, onde restituire a queste pagine del Convivio una più precisa fisionomia sul piano dottrinario. Il capitolo si chiude con una riflessione sul modo in cui il tema del desiderio di conoscere Dio è declinato nella Commedia. In vario modo connesse con i temi trattati nelle due sezioni di questo libro sono poi tre appendici, due al termine della prima parte e una al termine della seconda. L’appendice I rileva la dipendenza di una singolare definizione dell’intelletto possibile data in Convivio IV 21, 5 dal contenuto della proposizione decima dell’opuscolo sui principi primi noto come Liber de causis; l’appendice II mette a confronto la posizione dantesca sul rapporto tra nobiltà dell’anima e purezza della complessione corporea con la posizione di alcuni teologi duecenteschi; l’appendice III è dedicata infine all’esegesi medievale di un celebre paragone aristotelico, riecheggiato anche nel Convivio: il paragone tra la potenza conoscitiva dell’uomo e la vista della nottola, con cui si apre il II libro della Metafisica. Questo luogo aristotelico costituisce un punto di riferimento costante, come si è cercato di documentare, nelle discussioni medievali sulla conoscenza umana di Dio e delle sostanze separate.

Falzone, P. (2010). Desiderio della scienza e desiderio di Dio nel Convivio di Dante. BOLOGNA : Il Mulino.

Desiderio della scienza e desiderio di Dio nel Convivio di Dante

FALZONE, PAOLO
2010-01-01

Abstract

«Tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere». Così, sulle note di questa luminosa sentenza aristotelica (Metaph. I 1, 980a21), si apre il Convivio dantesco. Che cosa si debba intendere per desiderio naturale Dante provvede a spiegarlo nelle righe immediatamente successive. Siffatto desiderio, egli dice, è un istinto messo da Dio in tutte le cose, in forza del quale ogni ente – animato o inanimato che sia - tende a svolgere quella particolare operazione che ne realizza la natura. Il desiderio naturale di sapere non è che un caso specifico (proprio della forma umana) di questo istinto: dire che «tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere» equivale a dire pertanto che nell’esercizio dell’operazione conoscitiva risiede la perfezione ultima della natura umana. Attraverso il concetto di desiderio naturale di sapere Dante dà dunque rilievo e concretezza psicologica ad una questione che va ben oltre i significati inclusi nella sentenza aristotelica, la questione del rapporto tra la natura umana e il suo fine ultimo (la perfezione dell’intelletto). Quella del desiderio naturale della scienza ci appare così una delle tante immagini, e forse la più suggestiva, di cui il Medioevo filosofico si è servito per descrivere il fatto che uno iato originario separa l’uomo dalla sua destinazione ontologica e che nondimeno a conseguire quella destinazione egli è naturaliter ordinato. Di qui la duplice fisionomia del desiderio naturale, che se da un lato rende esplicita e per così dire misura la “differenza” tra l’uomo e il suo proprio fine, dall’altro, in quanto energia protesa verso il traguardo, disposizione al suo conseguimento, assicura però che quel fine, ancorché non posseduto inizialmente, è tuttavia realizzabile, e anzi imperiosamente governa il dinamismo della sostanza, curvandone su di sé la traiettoria. Sul modo di intendere lo scarto dal quale il desiderio si origina e prende vita, quello tra possibilità della perfezione e perfezione in atto, i filosofi del medioevo hanno intensamente (e talvolta aspramente) dibattuto, taluni convinti che questa scissione non possa essere sanata se non nella vita ultraterrena e per grazia, allorché all’intelletto umano sarà dischiusa la visione di Dio (è ad esempio la posizione di Tommaso d’Aquino), altri persuasi invece che nell’uomo la perfezione del desiderio naturale debba poter essere raggiunta già in questa vita, per il tramite delle sole scienze filosofiche (è ciò che ritengono alcuni magistri della Facoltà delle arti di Parigi), e che dunque ad annullare lo scarto di cui si è detto basti la naturale attuazione della nostra potenza conoscitiva. Si intuisce allora perché il tema del desiderio naturale arrivi spesso ad intrecciarsi, e talvolta vi si confonda, col problema, ultimo e grandioso, della felicità umana, e con l’assillante interrogativo che sempre accompagna la riflessione medievale su di essa: fino a che punto l’uomo può dirsi causa della sua propria felicità? O detto altrimenti: fino a che punto la ragione umana è autonoma dalla fede, la natura dalla grazia? Questa stessa grave domanda risuona altresì in molte pagine dantesche, alcune delle quali sono tra le più alte che egli abbia mai scritto. E in effetti, sul nesso tra desiderio naturale della scienza e felicità umana il Poeta mostra di interrogarsi incessantemente, dal Convivio alla Commedia alla Monarchia, dispiegando una riflessione vasta e profonda, internamente contrastata, inquieta. Di tale riflessione il nostro volume prende in esame e ricostruisce la parte forse più cospicua, quella relativa al Convivio (la Commedia e le altre opere sono solo occasionalmente lambite), osservando il modo in cui essa si declina attraverso il trattato e ponendola a confronto con la speculazione che nei decenni precedenti, grosso modo dalla metà del XIII secolo, teologi e maestri dell’università parigina hanno dedicato al medesimo problema. Si è voluto con ciò contribuire, sia pure per un aspetto particolare (ma si è visto quanto importante), alla ricostruzione complessiva dei rapporti tra il pensiero di Dante, nella fattispecie il Dante del Convivio, e quel poderoso fenomeno culturale che va sotto il nome di aristotelismo scolastico; rapporti già messi in luce magistralmente da Bruno Nardi, ma che oggi necessitano forse di essere riconsiderati alla luce di quanto in merito all’aristotelismo (o meglio agli aristotelismi) del XIII secolo, in particolare a Parigi, la storiografia filosofica è venuta aggiungendo e precisando negli ultimi trent’anni circa, più o meno a partire dal fondamentale lavoro di Roland Hissette sulla censura del 1277 (Enquête sur les 219 articles condamnés à Paris le 7 mars 1277, Louvain-Paris 1977). Prescindendo dai risultati concretamente raggiunti, questa è la prospettiva secondo la quale ci siamo sforzati di condurre la nostra indagine. Il volume è diviso in due parti. La prima parte muove dal proemio del Convivio, che contiene l’esposizione più dettagliata del tema del desiderio naturale di sapere, e di qui passa a considerare i capitoli 16-21 del IV trattato, nei quali l’irrompere di un tema di indole per certi versi affine, ma a sua volta instabile e ricco di modulazioni interne, il tema della nobiltà umana, provoca il frastagliarsi del tema aristotelico dell’esordio in motivi tra loro disarmonici. Senza voler enfatizzare la drammaticità di questo confronto, che appartiene a Dante non meno che alla cultura del suo tempo, ci è sembrato opportuno far emergere, nell’analisi di questi capitoli del Convivio, l’attrito tra una visione “naturalistica” della perfezione umana, di matrice appunto aristotelica, e una concezione lato sensu “teologica” (ove la definizione arriva ad includere tanto motivi e suggestioni scritturali quanto le zone più ascetiche e rarefatte del peripatetismo arabo). Nella seconda parte del volume la questione del desiderio naturale di sapere è ripresa e osservata invece in quello che forse è il suo aspetto strutturalmente più impegnativo. Al centro dell’analisi è il capitolo XV del III trattato, nel quale Dante si chiede se l’uomo desideri naturalmente conoscere quelle realtà (Dio, la materia prima, l’eterno) la cui essenza trascende i limiti della ragione naturale. Questione grave ed impegnativa, evidentemente, giacché concerne i confini entro i quali la nostra conoscenza può estendersi, e più radicalmente, dato che ridurre all’atto la potenza conoscitiva significa entrare in possesso del sommo bene conseguibile sulla terra, concerne le condizioni stesse della felicità in questa vita. La risposta di Dante all’interrogativo, ancorché non ovvia («…con ciò sia cosa che conoscere di Dio…quello esso è, non sia possibile alla nostra natura, quello da noi naturalmente non è desiderato di sapere») presuppone tuttavia un dibattito intenso e ancora poco esplorato (almeno in rapporto al pensiero dantesco) che su questo punto si svolse in seno alla letteratura filosofica e teologica nella seconda metà del secolo XIII (e oltre). Il nostro studio ricostruisce i passaggi argomentativi nei quali si articola la tesi dantesca e al contempo traccia i contorni del dibattito scolastico, onde restituire a queste pagine del Convivio una più precisa fisionomia sul piano dottrinario. Il capitolo si chiude con una riflessione sul modo in cui il tema del desiderio di conoscere Dio è declinato nella Commedia. In vario modo connesse con i temi trattati nelle due sezioni di questo libro sono poi tre appendici, due al termine della prima parte e una al termine della seconda. L’appendice I rileva la dipendenza di una singolare definizione dell’intelletto possibile data in Convivio IV 21, 5 dal contenuto della proposizione decima dell’opuscolo sui principi primi noto come Liber de causis; l’appendice II mette a confronto la posizione dantesca sul rapporto tra nobiltà dell’anima e purezza della complessione corporea con la posizione di alcuni teologi duecenteschi; l’appendice III è dedicata infine all’esegesi medievale di un celebre paragone aristotelico, riecheggiato anche nel Convivio: il paragone tra la potenza conoscitiva dell’uomo e la vista della nottola, con cui si apre il II libro della Metafisica. Questo luogo aristotelico costituisce un punto di riferimento costante, come si è cercato di documentare, nelle discussioni medievali sulla conoscenza umana di Dio e delle sostanze separate.
2010
978-88-15-13993-1
Falzone, P. (2010). Desiderio della scienza e desiderio di Dio nel Convivio di Dante. BOLOGNA : Il Mulino.
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