Il lavoro su La consuetudine commerciale nell’Ottocento italiano, Roma 2007, 264 p.; ISBN 978-88-548-1121-8 vede come ambito temporale della ricerca non solo il XIX secolo ma anche, al fine di comprendere l’evoluzione della scienza giuridica in merito alle riflessioni sulla norma consuetudinaria, i secoli XVII e XVIII, quelli della crisi del sistema di diritto comune, e il XX secolo, il secolo in cui vi sono stati importanti ripensamenti in seno alla costruzione teorica della consuetudine. La scelta di soffermarsi sull’Ottocento è data dal fatto che il diritto commerciale nella stagione della codificazione italiana costituisce un osservatorio privilegiato per condurre un’indagine sulla consuetudine, per la essenziale ragione che da esso emergono e in esso convergono (o si incontrano) due prospettive di estremo rilievo. La prima prospettiva riguarda la natura della consuetudine e la questione dei suoi elementi costitutivi, rispetto a cui la materia commerciale lungi dal circoscrivere l’analisi in una chiave meramente di “settore” o di “eccezione” offre interessanti spunti ricostruttivi in una chiave più generale. Proprio la consapevolezza della peculiare origine del diritto commerciale come fenomeno fortemente collegato agli usi e della fondamentale rilevanza che a questi è assegnata nel commercio – consapevolezza che si riscontra nelle fonti sia normative, sia di dottrina, nonché nelle discussioni assembleari e nei lavori preparatori in vista della redazione dei codici ottocenteschi – spinge a ripensare criticamente, se non altro sotto il profilo della periodizzazione e delle matrici culturali che ne sono alla base, la tradizionale individuazione, accanto all’elemento materiale, dell’elemento spirituale della c.d. opinio juris. Le fonti predette, nella loro ricchezza e nella varietà della loro provenienza, sollecitano l’interrogativo se la centralità dell’opinio juris e il suo essere requisito di esistenza della consuetudine sia mai stata positivamente sancita nella legislazione ovvero se ciò sia piuttosto il portato di una sistemazione dogmatica o concettuale. Tale questione rivela, in fondo, un’ulteriore ragione di interesse per la materia oggetto del presente lavoro, e cioè che la stagione ottocentesca della redazione dei codici nell’Italia unita rappresenta uno snodo che da un lato si raccorda con la tradizione giuridica previgente, nonché con il modello francese già filtrato dall’esperienza dei codici preunitari, e dall’altro costituisce il momento di avvio per la elaborazione dottrinale e di teoria generale di fine Ottocento, il che consente di individuare un ancor più vasto terreno di studio. La seconda prospettiva di indagine riguarda invece più da vicino il rapporto tra la consuetudine e la codificazione e, in ultima analisi, la rilevanza della consuetudine come fonte del diritto. Il legislatore dei codici commerciali ha indubbiamente tenuto presente la tradizione giuridica consuetudinaria e questo perché, nel disciplinare i singoli istituti nella nuova legislazione, ha utilizzato come materiale giuridico gli usi mercantili fino allora pienamente vigenti nelle piazze di commercio. Ne è di esempio il decennio di riforma successivo al neonato Codice di commercio del 1865, riforma che è stata interamente improntata dal legislatore al fine di rendere il testo legislativo più sensibile alle nuove esigenze economiche e dei traffici ben interpretate dalle usanze locali, e più osservante di quei rapporti obbligatori, di natura non solo contrattuale, ancora tutelati dagli usi commerciali. Infine, il riferimento alla consuetudine nella gerarchia delle fonti di diritto commerciale è fatto esplicito nello stesso dettato normativo dei codici di commercio ed è reso ancor più evidente dai lavori preparatori inerenti alle disposizioni d’attuazione e alle disposizioni generali.
Ferri, G. (2007). La consuetudine commerciale nell’Ottocento italiano. Roma : aracne editrice.
La consuetudine commerciale nell’Ottocento italiano
FERRI, GIORDANO
2007-01-01
Abstract
Il lavoro su La consuetudine commerciale nell’Ottocento italiano, Roma 2007, 264 p.; ISBN 978-88-548-1121-8 vede come ambito temporale della ricerca non solo il XIX secolo ma anche, al fine di comprendere l’evoluzione della scienza giuridica in merito alle riflessioni sulla norma consuetudinaria, i secoli XVII e XVIII, quelli della crisi del sistema di diritto comune, e il XX secolo, il secolo in cui vi sono stati importanti ripensamenti in seno alla costruzione teorica della consuetudine. La scelta di soffermarsi sull’Ottocento è data dal fatto che il diritto commerciale nella stagione della codificazione italiana costituisce un osservatorio privilegiato per condurre un’indagine sulla consuetudine, per la essenziale ragione che da esso emergono e in esso convergono (o si incontrano) due prospettive di estremo rilievo. La prima prospettiva riguarda la natura della consuetudine e la questione dei suoi elementi costitutivi, rispetto a cui la materia commerciale lungi dal circoscrivere l’analisi in una chiave meramente di “settore” o di “eccezione” offre interessanti spunti ricostruttivi in una chiave più generale. Proprio la consapevolezza della peculiare origine del diritto commerciale come fenomeno fortemente collegato agli usi e della fondamentale rilevanza che a questi è assegnata nel commercio – consapevolezza che si riscontra nelle fonti sia normative, sia di dottrina, nonché nelle discussioni assembleari e nei lavori preparatori in vista della redazione dei codici ottocenteschi – spinge a ripensare criticamente, se non altro sotto il profilo della periodizzazione e delle matrici culturali che ne sono alla base, la tradizionale individuazione, accanto all’elemento materiale, dell’elemento spirituale della c.d. opinio juris. Le fonti predette, nella loro ricchezza e nella varietà della loro provenienza, sollecitano l’interrogativo se la centralità dell’opinio juris e il suo essere requisito di esistenza della consuetudine sia mai stata positivamente sancita nella legislazione ovvero se ciò sia piuttosto il portato di una sistemazione dogmatica o concettuale. Tale questione rivela, in fondo, un’ulteriore ragione di interesse per la materia oggetto del presente lavoro, e cioè che la stagione ottocentesca della redazione dei codici nell’Italia unita rappresenta uno snodo che da un lato si raccorda con la tradizione giuridica previgente, nonché con il modello francese già filtrato dall’esperienza dei codici preunitari, e dall’altro costituisce il momento di avvio per la elaborazione dottrinale e di teoria generale di fine Ottocento, il che consente di individuare un ancor più vasto terreno di studio. La seconda prospettiva di indagine riguarda invece più da vicino il rapporto tra la consuetudine e la codificazione e, in ultima analisi, la rilevanza della consuetudine come fonte del diritto. Il legislatore dei codici commerciali ha indubbiamente tenuto presente la tradizione giuridica consuetudinaria e questo perché, nel disciplinare i singoli istituti nella nuova legislazione, ha utilizzato come materiale giuridico gli usi mercantili fino allora pienamente vigenti nelle piazze di commercio. Ne è di esempio il decennio di riforma successivo al neonato Codice di commercio del 1865, riforma che è stata interamente improntata dal legislatore al fine di rendere il testo legislativo più sensibile alle nuove esigenze economiche e dei traffici ben interpretate dalle usanze locali, e più osservante di quei rapporti obbligatori, di natura non solo contrattuale, ancora tutelati dagli usi commerciali. Infine, il riferimento alla consuetudine nella gerarchia delle fonti di diritto commerciale è fatto esplicito nello stesso dettato normativo dei codici di commercio ed è reso ancor più evidente dai lavori preparatori inerenti alle disposizioni d’attuazione e alle disposizioni generali.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.