L’annotazione di Filippo Liotta in appendice alla voce Domanda giudiziale (dir. interm.), inserita nel XIII volume dell’Enciclopedia del diritto, che ha rappresentato un punto di riferimento costante nello svolgimento del presente lavoro, ha fornito l’input essenziale per affrontare un campo d’indagine finora assai poco esplorato nei suoi specifici caratteri costitutivi. Invero, nel corso del basso medio evo, l’analisi delle metodiche d’approccio dei giuristi teorici e pratici ai problemi derivanti dalle modalità d’attuazione degli acta praeparatoria iudicii, ed in particolar modo dell’editio libelli e della vocatio in ius, offre spunti riflessivi sul complesso e diversificato articolarsi del modo d’attivare il processo. La disamina ha indotto, inoltre, a verificare quanto le costruzioni teoriche delineate dalla scienza giuridica medievale abbiano avuto dei riscontri effettivi nella prassi e nella normativa statutaria del XIII e XIV secolo. In relazione all’editio libelli, gli snodi problematici, sorti sulla base dell’interpretazione delle Authenticae Offeratur e Libellum, si concretizzavano non soltanto nell’obbligatorietà o meno della stesura scritta della domanda giudiziale, quale condizione necessaria all’espletamento della vocatio in ius, ma anche sulle forme di presentazione del libello e sulle garanzie che sia l’attore che il convenuto avrebbero dovuto prestare prima dell’inizio del giudizio. È proprio nell’ambito della lettura medievale delle fonti romane che emerge la vivace disputa sollevata da Giovanni Bassiano nei confronti di Piacentino in merito all’inserimento del nomen actionis nel libello e sulla natura della causa petendi, intesa quale elemento indispensabile per la comprensione da parte del reus della pretesa avanzata dall’attore. La base di tale contrapposizione, alimentata nei legisti e canonisti dell’epoca, risiede, dunque, nell’asserita identificazione da parte del giurista emiliano della causa con l’actio, ossia nel riassumere le ragioni dell’attore con la definizione della tipologia di azione da intentare. Tale querelle caratterizzerà, oltre alle opere di numerosi autori di ordines iudiciorum successivi al giurista bolognese, anche le posizioni dei principali esponenti della Scuola dei glossatori e di quella del Commento. Non indifferente, al riguardo, risulterà peraltro il contributo fornito dai canonisti sulla base anche della nuova produzione normativa pontificia. Per quanto concerne la vocatio in ius, la scienza giuridica medievale si interrogava principalmente in ordine alla scansione temporale delle fasi iniziali del processo e sulla necessità di posporre la presentazione della domanda giudiziale alla citazione del convenuto, determinando così un ribaltamento dell’iter processuale previsto dal Codex giustinianeo e nel rispetto, invece, dell’ordo sancito dal Digestum Vetus. Lo schema procedurale delle fasi preliminari del giudizio su cui si erano sviluppate le elaborazioni teoriche dei doctores e le disamine dei giuristi pratici non ha trovato completo riscontro nella normativa statutaria dei Comuni italiani. In essa si è potuta constatare la generale tendenza ad abbreviare al massimo i tempi processuali e, dunque, ad eliminare formalità che potessero determinare dilazioni nel rito. Ne è proprio testimonianza l’esclusione, in molti statuti, dell’obbligatorietà del libello unitamente all’omissione dell’inserimento del nomen actionis nella domanda giudiziale, qualora fosse ben specificata la causa petendi.
Ferri, G. (2017). La formulazione della “editio libelli” e la “vocatio in ius” nei secoli XIII-XIV, in Collana Pubblicazioni del Dipartimento di Scienze Giuridiche Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. Napoli : Jovene editore.
La formulazione della “editio libelli” e la “vocatio in ius” nei secoli XIII-XIV, in Collana Pubblicazioni del Dipartimento di Scienze Giuridiche Università degli Studi di Roma “La Sapienza”
FERRI, GIORDANO
2017-01-01
Abstract
L’annotazione di Filippo Liotta in appendice alla voce Domanda giudiziale (dir. interm.), inserita nel XIII volume dell’Enciclopedia del diritto, che ha rappresentato un punto di riferimento costante nello svolgimento del presente lavoro, ha fornito l’input essenziale per affrontare un campo d’indagine finora assai poco esplorato nei suoi specifici caratteri costitutivi. Invero, nel corso del basso medio evo, l’analisi delle metodiche d’approccio dei giuristi teorici e pratici ai problemi derivanti dalle modalità d’attuazione degli acta praeparatoria iudicii, ed in particolar modo dell’editio libelli e della vocatio in ius, offre spunti riflessivi sul complesso e diversificato articolarsi del modo d’attivare il processo. La disamina ha indotto, inoltre, a verificare quanto le costruzioni teoriche delineate dalla scienza giuridica medievale abbiano avuto dei riscontri effettivi nella prassi e nella normativa statutaria del XIII e XIV secolo. In relazione all’editio libelli, gli snodi problematici, sorti sulla base dell’interpretazione delle Authenticae Offeratur e Libellum, si concretizzavano non soltanto nell’obbligatorietà o meno della stesura scritta della domanda giudiziale, quale condizione necessaria all’espletamento della vocatio in ius, ma anche sulle forme di presentazione del libello e sulle garanzie che sia l’attore che il convenuto avrebbero dovuto prestare prima dell’inizio del giudizio. È proprio nell’ambito della lettura medievale delle fonti romane che emerge la vivace disputa sollevata da Giovanni Bassiano nei confronti di Piacentino in merito all’inserimento del nomen actionis nel libello e sulla natura della causa petendi, intesa quale elemento indispensabile per la comprensione da parte del reus della pretesa avanzata dall’attore. La base di tale contrapposizione, alimentata nei legisti e canonisti dell’epoca, risiede, dunque, nell’asserita identificazione da parte del giurista emiliano della causa con l’actio, ossia nel riassumere le ragioni dell’attore con la definizione della tipologia di azione da intentare. Tale querelle caratterizzerà, oltre alle opere di numerosi autori di ordines iudiciorum successivi al giurista bolognese, anche le posizioni dei principali esponenti della Scuola dei glossatori e di quella del Commento. Non indifferente, al riguardo, risulterà peraltro il contributo fornito dai canonisti sulla base anche della nuova produzione normativa pontificia. Per quanto concerne la vocatio in ius, la scienza giuridica medievale si interrogava principalmente in ordine alla scansione temporale delle fasi iniziali del processo e sulla necessità di posporre la presentazione della domanda giudiziale alla citazione del convenuto, determinando così un ribaltamento dell’iter processuale previsto dal Codex giustinianeo e nel rispetto, invece, dell’ordo sancito dal Digestum Vetus. Lo schema procedurale delle fasi preliminari del giudizio su cui si erano sviluppate le elaborazioni teoriche dei doctores e le disamine dei giuristi pratici non ha trovato completo riscontro nella normativa statutaria dei Comuni italiani. In essa si è potuta constatare la generale tendenza ad abbreviare al massimo i tempi processuali e, dunque, ad eliminare formalità che potessero determinare dilazioni nel rito. Ne è proprio testimonianza l’esclusione, in molti statuti, dell’obbligatorietà del libello unitamente all’omissione dell’inserimento del nomen actionis nella domanda giudiziale, qualora fosse ben specificata la causa petendi.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.