Non si può certo sostenere che, in questi ultimi anni, in Italia l’interesse per Bourdieu non si sia affievolito, dopo una rapida ripresa dovuta, invero, a un numero circoscritto di scienziati sociali. Certo non sono mancate lodevoli traduzioni di suoi libri, da tempo inediti in Italia, sono stati organizzati seminari focalizzati sulle sue categorie d’analisi e sulla sua metodologia, ma tutto questo ha mostrato un carattere episodico. Una discontinuità che non ha comunque ridotto l’importanza dei momenti di discussione su Bourdieu. Anzi, essi hanno avuto il merito di scoprire aspetti pressoché interamente sfuggiti alla critica, di pensare e presentare concetti non nuovi in prospettive nuove, come è avvenuto in un’occasione di confronto nel 2012, che ha prodotto una pubblicazione curata da Emanuela Susca.1 O di riprendere tenacemente a chiedersi e a chiedere cosa è stato fatto (o non fatto) e cosa era possibile se non auspicabile fare con gli strumenti concettuali e analitici che l’opera di Pierre Bourdieu mette a disposizione, come nella tavola rotonda promossa ancora nel 2014 da Marco Santoro, forse il maggiore artefice di una ricognizione degli “usi e non usi” dell’opera di Bourdieu in Italia. E qui affiorava quella sensazione che l’ampia disseminazione del lessico bourdieusiano (habitus, campo, pratiche, violenza simbolica) nell’ambito delle diverse discipline culturali, si presentasse come frammenti di prospettive sociologiche e antropologiche difficilmente ricomponibili in idee e pratiche, fondamentali per comprendere un mondo sociale complesso ma anche unitario
DE FEO, A., Giannini, M., Pitzalis, M. (2019). Introduzione, 7-14.
Introduzione
Antonietta De Feo;
2019-01-01
Abstract
Non si può certo sostenere che, in questi ultimi anni, in Italia l’interesse per Bourdieu non si sia affievolito, dopo una rapida ripresa dovuta, invero, a un numero circoscritto di scienziati sociali. Certo non sono mancate lodevoli traduzioni di suoi libri, da tempo inediti in Italia, sono stati organizzati seminari focalizzati sulle sue categorie d’analisi e sulla sua metodologia, ma tutto questo ha mostrato un carattere episodico. Una discontinuità che non ha comunque ridotto l’importanza dei momenti di discussione su Bourdieu. Anzi, essi hanno avuto il merito di scoprire aspetti pressoché interamente sfuggiti alla critica, di pensare e presentare concetti non nuovi in prospettive nuove, come è avvenuto in un’occasione di confronto nel 2012, che ha prodotto una pubblicazione curata da Emanuela Susca.1 O di riprendere tenacemente a chiedersi e a chiedere cosa è stato fatto (o non fatto) e cosa era possibile se non auspicabile fare con gli strumenti concettuali e analitici che l’opera di Pierre Bourdieu mette a disposizione, come nella tavola rotonda promossa ancora nel 2014 da Marco Santoro, forse il maggiore artefice di una ricognizione degli “usi e non usi” dell’opera di Bourdieu in Italia. E qui affiorava quella sensazione che l’ampia disseminazione del lessico bourdieusiano (habitus, campo, pratiche, violenza simbolica) nell’ambito delle diverse discipline culturali, si presentasse come frammenti di prospettive sociologiche e antropologiche difficilmente ricomponibili in idee e pratiche, fondamentali per comprendere un mondo sociale complesso ma anche unitarioI documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.