Negli Stati americani, pratiche, accuratamente guidate, di individuazione e stigmatizzazione del nemico e di identificazione del diverso, dell’“altro”, come “nemico”, hanno attraversato tempi e luoghi assumendo forme diverse, innestandosi su sentimenti latenti e preesistenti di timore, avversione, rancore, rigetto. Così quello del “nemico” è divenuto uno “spettro” onnipresente, un marchio da attribuire (più o meno esplicitamente), secondo le convenienze del caso, ad un gruppo etnico, ad uno specifico gruppo sociale, ad una posizione o organizzazione politica, ad una religione. Un’etichetta, dunque, spesso arbitrariamente applicata anche ad insiemi di persone che in comune avevano ben poco. Oggetto di “politiche dell’odio” sono stati, a seconda del momento e del contesto, gli indios, gli schiavi neri, i creoli, i liberali, gli afroamericani, i populisti, i comunisti, i cattolici progressisti, gli appartenenti a varie minoranze immigrate; ma anche, durante la Guerra Fredda, coloro che venivano individuati come esponenti generici della “rivoluzione dei costumi”, seguaci delle nuove tendenze artistiche, del rock, e di altre mode che, al pari delle utopie rivoluzionarie, costituivano una “minaccia per il futuro dei ‘parametri storici’ dell’Occidente nella regione: capitalismo e cristianesimo” . Nel Novecento americano, la potenza distruttiva intrinseca ad un uso massiccio della logica amico/nemico come principale chiave interpretativa di ogni tipo di confronto è stata alimentata periodicamente dall’azione di forze “nazionaliste” di stampo antiliberale, autoritario e xenofobo, e dunque escludente. Nel caso statunitense un ruolo determinante, in questa direzione, è stato svolto da organizzazioni che hanno utilizzato meccanismi di esasperata identificazione su basi etniche, religiose e sociali - e su presunte supremazie - per impedire ogni effettiva integrazione di nuovi cittadini, fino a trasformare l’acronimo WASP – White AngloSaxon Protestant - in una istanza di supremazia generatrice di discriminazione ed odio. Tale potenza distruttiva si è palesata, poi, con tutta la sua forza e a livello continentale durante la Guerra Fredda, supportata da dottrine e strategie repressive transnazionali alla cui elaborazione hanno concorso attori americani e non. Ha portato, infine, in casi tanto estremi quanto diffusi, alla giustificazione dell’eliminazione fisica dell’avversario, presentata come mezzo indispensabile alla sopravvivenza e quindi alla salvezza della Nazione, nei modi ritenuti di volta in volta più efficaci, in sprezzo dello jus cogens del diritto internazionale, così come dei più elementari principi fondanti della civiltà. In America latina, l’insufficienza dei meccanismi propri del pluralismo, che avrebbero dovuto consentire di trasformare il possibile nemico in un avversario legittimo e di regolamentare il confronto politico, ha favorito il radicarsi di forme di contrapposizione politica attraversate, e in alcuni momenti egemonizzate, da una visione manichea della competizione, fondata sulla delegittimazione dell’avversario, qualificato ripetutamente come minaccia alla salvaguardia della comunità e al mantenimento dell’armonia della Nazione. Un manicheismo manifestatosi nell’ambito dello Stato liberale, esasperato dalle modalità del confronto politico maturate in senso ai populismi e portato alle estreme conseguenze durante la Guerra Fredda . Così, pur con tutte le differenziazioni interne del caso, l’area latinoamericana ha assunto la fisionomia di un contesto congeniale al consolidamento di pratiche di esclusione fomentate, formalmente o informalmente, anche attraverso il ricorso alla violenza nella gestione dei rapporti istituzionali e la tutela di forme di concentrazione del potere nelle mani di una ristretta élite o di una forza politica dominante negando espressione politica alle forze di opposizione e reprimendo sul nascere movimenti sociali e altre forme di rappresentanza. Retoriche e comportamenti fondati su sentimenti di odio hanno introdotto, o amplificato, forti elementi di divisione all’interno delle società studiate, contribuendo ad un generale indebolimento del consenso verso alcuni dei valori fondamentali per una convivenza civile, prima ancora che per una piena affermazione della democrazia. Al tempo stesso, hanno rappresentato una minaccia concreta al rispetto dei diritti umani. Si tratta di un intreccio di fenomeni alla cui conoscenza questo lavoro intende portare un contributo, che ne vuole mettere in evidenza la complessità. Con l’intento non solo di offrire, a chi avrà la pazienza di leggerlo, qualche parziale e provvisoria risposta, ma anche di fornire spunti di riflessione utili a stimolare ulteriori confronti e ricerche sul contesto nel quale sorgono politiche di odio e sulle forme che esse hanno assunto – e vanno assumendo – in America e negli altri continenti. L’analisi del concetto di odio è un’impresa in cui si sono cimentati studiosi di diverse discipline, rivelatasi talmente ardua che neppure in specifici ambiti disciplinari è possibile riscontrare una definizione univoca della natura dell’“odio” ampiamente accettata, fino al punto che il concetto stesso resta sfuggente, ambiguo, difficilmente incasellabile in rigidi contenitori interpretativi esaustivi. In questa analisi si insisterà sulla natura sociale e politica dell’odio, rimandando, per l’approfondimento della sua componente emotiva, alle riflessioni formulate in ambito psicologico-sociale e neuro-scientifico.
Fotia, L. (2020). Le politiche dell'odio e il Novecento americano: un'introduzione storica. In Laura Fotia (a cura di), Le politiche dell'odio nel Novecento americano (pp. 9-36). Roma : Nova Delphi Academia.
Le politiche dell'odio e il Novecento americano: un'introduzione storica
fotia
2020-01-01
Abstract
Negli Stati americani, pratiche, accuratamente guidate, di individuazione e stigmatizzazione del nemico e di identificazione del diverso, dell’“altro”, come “nemico”, hanno attraversato tempi e luoghi assumendo forme diverse, innestandosi su sentimenti latenti e preesistenti di timore, avversione, rancore, rigetto. Così quello del “nemico” è divenuto uno “spettro” onnipresente, un marchio da attribuire (più o meno esplicitamente), secondo le convenienze del caso, ad un gruppo etnico, ad uno specifico gruppo sociale, ad una posizione o organizzazione politica, ad una religione. Un’etichetta, dunque, spesso arbitrariamente applicata anche ad insiemi di persone che in comune avevano ben poco. Oggetto di “politiche dell’odio” sono stati, a seconda del momento e del contesto, gli indios, gli schiavi neri, i creoli, i liberali, gli afroamericani, i populisti, i comunisti, i cattolici progressisti, gli appartenenti a varie minoranze immigrate; ma anche, durante la Guerra Fredda, coloro che venivano individuati come esponenti generici della “rivoluzione dei costumi”, seguaci delle nuove tendenze artistiche, del rock, e di altre mode che, al pari delle utopie rivoluzionarie, costituivano una “minaccia per il futuro dei ‘parametri storici’ dell’Occidente nella regione: capitalismo e cristianesimo” . Nel Novecento americano, la potenza distruttiva intrinseca ad un uso massiccio della logica amico/nemico come principale chiave interpretativa di ogni tipo di confronto è stata alimentata periodicamente dall’azione di forze “nazionaliste” di stampo antiliberale, autoritario e xenofobo, e dunque escludente. Nel caso statunitense un ruolo determinante, in questa direzione, è stato svolto da organizzazioni che hanno utilizzato meccanismi di esasperata identificazione su basi etniche, religiose e sociali - e su presunte supremazie - per impedire ogni effettiva integrazione di nuovi cittadini, fino a trasformare l’acronimo WASP – White AngloSaxon Protestant - in una istanza di supremazia generatrice di discriminazione ed odio. Tale potenza distruttiva si è palesata, poi, con tutta la sua forza e a livello continentale durante la Guerra Fredda, supportata da dottrine e strategie repressive transnazionali alla cui elaborazione hanno concorso attori americani e non. Ha portato, infine, in casi tanto estremi quanto diffusi, alla giustificazione dell’eliminazione fisica dell’avversario, presentata come mezzo indispensabile alla sopravvivenza e quindi alla salvezza della Nazione, nei modi ritenuti di volta in volta più efficaci, in sprezzo dello jus cogens del diritto internazionale, così come dei più elementari principi fondanti della civiltà. In America latina, l’insufficienza dei meccanismi propri del pluralismo, che avrebbero dovuto consentire di trasformare il possibile nemico in un avversario legittimo e di regolamentare il confronto politico, ha favorito il radicarsi di forme di contrapposizione politica attraversate, e in alcuni momenti egemonizzate, da una visione manichea della competizione, fondata sulla delegittimazione dell’avversario, qualificato ripetutamente come minaccia alla salvaguardia della comunità e al mantenimento dell’armonia della Nazione. Un manicheismo manifestatosi nell’ambito dello Stato liberale, esasperato dalle modalità del confronto politico maturate in senso ai populismi e portato alle estreme conseguenze durante la Guerra Fredda . Così, pur con tutte le differenziazioni interne del caso, l’area latinoamericana ha assunto la fisionomia di un contesto congeniale al consolidamento di pratiche di esclusione fomentate, formalmente o informalmente, anche attraverso il ricorso alla violenza nella gestione dei rapporti istituzionali e la tutela di forme di concentrazione del potere nelle mani di una ristretta élite o di una forza politica dominante negando espressione politica alle forze di opposizione e reprimendo sul nascere movimenti sociali e altre forme di rappresentanza. Retoriche e comportamenti fondati su sentimenti di odio hanno introdotto, o amplificato, forti elementi di divisione all’interno delle società studiate, contribuendo ad un generale indebolimento del consenso verso alcuni dei valori fondamentali per una convivenza civile, prima ancora che per una piena affermazione della democrazia. Al tempo stesso, hanno rappresentato una minaccia concreta al rispetto dei diritti umani. Si tratta di un intreccio di fenomeni alla cui conoscenza questo lavoro intende portare un contributo, che ne vuole mettere in evidenza la complessità. Con l’intento non solo di offrire, a chi avrà la pazienza di leggerlo, qualche parziale e provvisoria risposta, ma anche di fornire spunti di riflessione utili a stimolare ulteriori confronti e ricerche sul contesto nel quale sorgono politiche di odio e sulle forme che esse hanno assunto – e vanno assumendo – in America e negli altri continenti. L’analisi del concetto di odio è un’impresa in cui si sono cimentati studiosi di diverse discipline, rivelatasi talmente ardua che neppure in specifici ambiti disciplinari è possibile riscontrare una definizione univoca della natura dell’“odio” ampiamente accettata, fino al punto che il concetto stesso resta sfuggente, ambiguo, difficilmente incasellabile in rigidi contenitori interpretativi esaustivi. In questa analisi si insisterà sulla natura sociale e politica dell’odio, rimandando, per l’approfondimento della sua componente emotiva, alle riflessioni formulate in ambito psicologico-sociale e neuro-scientifico.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.