Per il fatto di situarsi tra il regno dei morti e quello dei vivi – non appartenendo di fatto a nessuno dei due, in quanto per natura definito da una negazione, il ‘non-morto’ – e tra il regno degli umani e quello degli animali – per il suo essere uomo di giorno e pipistrello di notte – insomma per questa sua condizione di sfuggente ‘in-betweenness’, il vampiro incarna per eccellenza gli attributi che Victor Turner in “The Ritual Process” (1969) riferisce in generale alla liminalità quale caos, non-struttura e indeterminatezza, opposti all’ordine e alla definizione delle fasi che precedono e seguono quella di transizione dell’elemento soglia. In tal senso il vampiro può essere anche visto come il rischio che ogni comunità corre quando questa fase confusa, ambigua e disfunzionale contribuisce alla confusione di confini che si vorrebbero tenere rigidamente separati e che perciò appare repellente, mostruosa. L’ibridità del vampiro appare di fatto molto spesso, nelle sue molteplici occorrenze all’interno della narrativa o della cinematografia, come un elemento da rimuovere, reprimere, purificare, diagnosticare e curare. Come una specie di malattia in grado di contaminare e corrompere; un morbo da sradicare per non soccombere al pericolo – ma anche al fascino – del suo contagio. Il vampiro incarna dunque non solo la paura del diverso ma anche l’ambivalenza stessa della reazione ad esso, perciò non meraviglia che nel romanzo più noto dedicato a questa perturbante figura, il famoso “Dracula” di Bram Stoker (1897), siano di fatto, come afferma Talia Schaffer (1994), la censura e condanna di un’omosessualità manifesta (quella di Oscar Wilde, incarcerato soltanto due anni prima per questo stesso motivo) oltre che la paura di un desiderio omosessuale represso (quella dello stesso Stoker) a dominare l’immaginario legato ad essa. Lo stesso vale per le figure femminili vampire o vampirizzate che appaiono tanto nel romanzo in questione quanto in altri affascinanti racconti, come “Carmilla” di Le Fanu (1871), che fanno della donna vampiro la propria protagonista. Le vampire sono figure altrettanto ambigue, androgine se non mascoline nel loro essere desiderio erotico, e perciò liminali nella loro trasgressione dei confini di genere. Nella loro ‘eccedenza’ e ‘perversione’ rispetto alla norma del tempo, non possono non rimandarci alle emancipate ‘new women’ di fine Ottocento: figure aborrite ma seducenti che insidiavano l’ideale etico vittoriano dell’angelo del focolare e che nelle sensuali illustrazioni di Beardsley alla Salomè wildiana o nei ritratti preraffaelliti di Rossetti o Burne-Jones trovavano altrettanto vivida e perturbante rappresentazione.
Esposito, L. (2003). Baci dalla Transilvania. La paura del contagio nella Londra di fine secolo. In Laura Di Michele (a cura di), Londra e le altre: immagini della metropoli nel secondo Ottocento (pp. 395-412). ITA : Liguori Editore.
Baci dalla Transilvania. La paura del contagio nella Londra di fine secolo
ESPOSITO, Lucia
2003-01-01
Abstract
Per il fatto di situarsi tra il regno dei morti e quello dei vivi – non appartenendo di fatto a nessuno dei due, in quanto per natura definito da una negazione, il ‘non-morto’ – e tra il regno degli umani e quello degli animali – per il suo essere uomo di giorno e pipistrello di notte – insomma per questa sua condizione di sfuggente ‘in-betweenness’, il vampiro incarna per eccellenza gli attributi che Victor Turner in “The Ritual Process” (1969) riferisce in generale alla liminalità quale caos, non-struttura e indeterminatezza, opposti all’ordine e alla definizione delle fasi che precedono e seguono quella di transizione dell’elemento soglia. In tal senso il vampiro può essere anche visto come il rischio che ogni comunità corre quando questa fase confusa, ambigua e disfunzionale contribuisce alla confusione di confini che si vorrebbero tenere rigidamente separati e che perciò appare repellente, mostruosa. L’ibridità del vampiro appare di fatto molto spesso, nelle sue molteplici occorrenze all’interno della narrativa o della cinematografia, come un elemento da rimuovere, reprimere, purificare, diagnosticare e curare. Come una specie di malattia in grado di contaminare e corrompere; un morbo da sradicare per non soccombere al pericolo – ma anche al fascino – del suo contagio. Il vampiro incarna dunque non solo la paura del diverso ma anche l’ambivalenza stessa della reazione ad esso, perciò non meraviglia che nel romanzo più noto dedicato a questa perturbante figura, il famoso “Dracula” di Bram Stoker (1897), siano di fatto, come afferma Talia Schaffer (1994), la censura e condanna di un’omosessualità manifesta (quella di Oscar Wilde, incarcerato soltanto due anni prima per questo stesso motivo) oltre che la paura di un desiderio omosessuale represso (quella dello stesso Stoker) a dominare l’immaginario legato ad essa. Lo stesso vale per le figure femminili vampire o vampirizzate che appaiono tanto nel romanzo in questione quanto in altri affascinanti racconti, come “Carmilla” di Le Fanu (1871), che fanno della donna vampiro la propria protagonista. Le vampire sono figure altrettanto ambigue, androgine se non mascoline nel loro essere desiderio erotico, e perciò liminali nella loro trasgressione dei confini di genere. Nella loro ‘eccedenza’ e ‘perversione’ rispetto alla norma del tempo, non possono non rimandarci alle emancipate ‘new women’ di fine Ottocento: figure aborrite ma seducenti che insidiavano l’ideale etico vittoriano dell’angelo del focolare e che nelle sensuali illustrazioni di Beardsley alla Salomè wildiana o nei ritratti preraffaelliti di Rossetti o Burne-Jones trovavano altrettanto vivida e perturbante rappresentazione.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.