Nel primo capitolo analizzo il flusso del nostro pensare quotidiano, con l’intento di comprendere come migliorarlo, se e dove ciò sia possibile. Per farlo, parto da una metafora: quella offertaci dalla nozione di paesaggio. Osservo così le possibili risonanze tra il “paesaggio naturale” esterno (che diviene il contesto in cui elaboriamo i nostri pensieri), il “paesaggio come dimora dell’io” (cioè quella porzione di contesto esterno che ciascuno di noi investe simbolicamente di significato, nella quale ci rispecchiamo e che, pertanto, influenzerà ancora di più il nostro flusso di pensieri) e il vero e proprio “paesaggio mentale”, (cioè la cornice entro cui i nostri pensieri e le relative sceneggiature mentali prendono forma). Nell’ultimo paragrafo metto brevemente a tema alcuni dei possibili vincoli, entro cui i nostri pensieri prendono forma e, in particolare, accenno ad uno dei luoghi fondamentali, in cui queste forme sono trasmesse: la scuola. Individuare una lista esaustiva di tali vincoli sarebbe un compito fuorviante che eccederebbe totalmente le possibilità di un intero libro, figuriamoci quelle di un singolo paragrafo. Tuttavia, in quelle brevi riflessioni ne propongo almeno due che sono destinate ad avere effetti esiziali rispetto alle forme che il pensiero quotidiano di tutti noi potrà assumere: a) l’idea che il sapere e la conoscenza siano noiosi, aridi e nozionistici; b) l’idea che i saperi teorici i saperi pratici siano del tutto disgiunti e che possano procedere separatamente. La prima idea è rovinosa, perché allontana definitivamente tutti noi dall’unico vero strumento che abbiamo per pensare bene e vivere meglio: la cultura, in tutte le sue forme e manifestazioni. La seconda idea è rovinosa, perché crea una gerarchia fra i saperi e, istituendo tale gerarchia, legittima anche una gerarchia fra uomini e donne che si distinguono nelle differenti forme del sapere. In altri termini, si gettano le basi, perché il sapere, lungi dall’essere il volano per promuovere la valorizzazione di tutte le differenze sociali e culturali, assurga a base di legittimazione delle diseguaglianze sociali Nel primo capitolo analizzo il flusso del nostro pensare quotidiano, con l’intento di comprendere come migliorarlo, se e dove ciò sia possibile. Per farlo, parto da una metafora: quella offertaci dalla nozione di paesaggio. Osservo così le possibili risonanze tra il “paesaggio naturale” esterno (che diviene il contesto in cui elaboriamo i nostri pensieri), il “paesaggio come dimora dell’io” (cioè quella porzione di contesto esterno che ciascuno di noi investe simbolicamente di significato, nella quale ci rispecchiamo e che, pertanto, influenzerà ancora di più il nostro flusso di pensieri) e il vero e proprio “paesaggio mentale”, (cioè la cornice entro cui i nostri pensieri e le relative sceneggiature mentali prendono forma). Nell’ultimo paragrafo metto brevemente a tema alcuni dei possibili vincoli, entro cui i nostri pensieri prendono forma e, in particolare, accenno ad uno dei luoghi fondamentali, in cui queste forme sono trasmesse: la scuola. Individuare una lista esaustiva di tali vincoli sarebbe un compito fuorviante che eccederebbe totalmente le possibilità di un intero libro, figuriamoci quelle di un singolo paragrafo. Tuttavia, in quelle brevi riflessioni ne propongo almeno due che sono destinate ad avere effetti esiziali rispetto alle forme che il pensiero quotidiano di tutti noi potrà assumere: a) l’idea che il sapere e la conoscenza siano noiosi, aridi e nozionistici; b) l’idea che i saperi teorici i saperi pratici siano del tutto disgiunti e che possano procedere separatamente. La prima idea è rovinosa, perché allontana definitivamente tutti noi dall’unico vero strumento che abbiamo per pensare bene e vivere meglio: la cultura, in tutte le sue forme e manifestazioni. La seconda idea è rovinosa, perché crea una gerarchia fra i saperi e, istituendo tale gerarchia, legittima anche una gerarchia fra uomini e donne che si distinguono nelle differenti forme del sapere. In altri termini, si gettano le basi, perché il sapere, lungi dall’essere il volano per promuovere la valorizzazione di tutte le differenze sociali e culturali, assurga a base di legittimazione delle diseguaglianze sociali. Nel secondo capitolo considero, in primo luogo, una serie di forme di inquinamento verbale (fra le quali, il nemico interno, l’onnubilamento delle emozioni, il sabotaggio esterno, il nickname, le micro-aggressioni verbali e le tecniche di costruzione dell’irrealtà). Secondariamente, dopo aver illustrato alcune delle caratteristiche socioculturali della percezione del tempo nella società contemporanea (facendo riferimento ai numerosi studiosi che se ne sono estesamente occupati), procedo ad illustrare alcune forme di inquinamento della percezione temporale (fra le quali, il dilagare del futuro nel presente, la sindrome del pilota automatico e le varie forme di addomesticamento del futuro selvaggio). Nella terza parte del capitolo riprendo il concetto di spazializzazione dell’io per illustrare alcune possibili forme patologiche di organizzazione dello spazio domestico (come la disposofobia e il decluttering) che, lungi dall’essere mere espressioni di patologie psicologiche individuali, propongo di considerare alla stregua di forme estreme (e certamente patologiche) di resistenza alla società dei consumi e al feroce marketing dei desideri che essa promuove. Nella quarta parte introduco il concetto di “io-casa” (che viene confrontato con l’“io-pelle” di Didier Anzieu) e argomento la sua utilità ed efficacia esplicativa. Infine, nell’ultima parte prendendo spunto dall’opera di Alejandro Díaz: “Happiness is expensive” illustro quella forma compulsiva e patologica che ci induce a collocare esclusivamente nel mercato la possibile soluzione di ogni nostro problema e desiderio, facendo riferimento anche al concetto di “tesserini dell’identità”, proposto da Zygmunt Bauman. Nel capitolo terzo sposto l’attenzione dalle parole alle immagini e introduco il concetto di “inquinamento visuale”, argomentandone sia l’utilità e l’efficacia esplicativa, sia la complessità applicativa conseguente alla corretta considerazione dei risultati delle teorie dell’audience, secondo i quali soggetti diversi posti dinnanzi allo stesso testo iconico vedono cose, almeno parzialmente, diverse. Propongo, inoltre, di considerare al contempo sia la circostanza che noi siamo le immagini che vediamo, sia quella secondo la quale noi tendenzialmente vediamo ciò che siamo. Nell’applicare all’immaginario sociale i concetti di inquinamento e sostenibilità, affermo che: a) senza immagini l’io non può pensare se stesso; b) se non è sempre vero che siamo le immagini che vediamo, è certamente vero che le immagini che abitano i nostri pensieri derivano con un altissimo grado di probabilità dell’immaginario sociale circolante nella contemporaneità; c) pertanto, almeno una parte delle immagini che vediamo tendono a divenire una parte strutturante e costitutiva del nostro mondo interiore, in quanto noi siamo certamente le immagini che pensiamo. Introduco poi una breve digressione sul concetto di “guerra dei sogni” di Marc Augé, mostrando come gli immaginari diventino socialmente i mattoncini del lego, con cui si costruiscono e/o si smontano formazioni ideologiche altamente tossiche, quali il razzismo, l’omofobia o il sessismo (in termini più tecnici, possiamo affermare che questi ultimi sono le risorse che vengono impiegate per “naturalizzare” le diseguaglianze sociali). Pertanto, sottolineo come l’inquinamento visuale abbia contemporaneamente una dimensione individuale e una dimensione collettiva. Affermo, inoltre, che le immagini che pensiamo possono essere considerate come le forme estetiche del nostro io: sono gli arredi, attraverso i quali possiamo ammobiliare le dimore della nostra soggettività. Nella seconda parte del capitolo mostro, infine, come alcune serie televisive abbiamo contribuito a formare in modo estremamente rilevante l’immaginario sociale, a cui nella vita quotidiana facciamo riferimento. Le immagini che provengono dalla serialità televisiva, infatti, sono gli arredi con i quali possiamo ammobiliare le dimore della nostra soggettività. Costruiscono per noi un patrimonio condiviso di idee, valori, credenze e stili di vita, attingendo al quale possiamo pensare, conversare, sognare, parlare, sorridere, con-vivere. La domanda pratica che ne consegue è: quali sono i tipi di immaginari ai quali vogliamo esporre quotidianamente noi stessi? Peraltro, chiarisco che soltanto il singolo soggetto è in grado di identificare il tipo di immaginario adatto a sé: un immaginario negativo, per un soggetto, può rivestire un carattere catartico, mentre per un altro al contrario può divenire altamente inquinante. In tal senso, il concetto di inquinamento visuale è un utile strumento da portare con sé nella quotidianità, ma non deve essere in alcun modo inteso come strumento di censura dell’autorialità e di limitazione della creatività dei testi visuali. Nell’ultimo paragrafo propongo, infine, una breve digressione teorica sul concetto di intersezionalità. Nel capitolo quarto propongo di affiancare al concetto di paesaggio (landscape) quello di paesaggio sonoro (soundscape) e di declinare quest’ultimo all’interno di una prospettiva ecologica, analizzando le potenziali forme di inquinamento acustico del nostro quotidiano. Ciò al fine sia di comprendere meglio la composizione musicale delle nostre traiettorie biografiche, sia di mettere a fuoco gli intrecci tra soundscape e soggettività. Inoltre, propongo al lettore e alla lettrice di effettuare una vera e propria auto-etnografia dei suoni che quotidianamente ascoltiamo, per documentare appunto in che misura noi siamo potenzialmente anche i suoni che ascoltiamo. Riprendendo Murray Schafer, sottolineo il fatto che l’inquinamento acustico si verifichi quando non si ascolta più con attenzione: diventano rumori inquinanti tutti quei suoni del quotidiano che abbiamo imparato ad ignorare e che potenzialmente vorremmo poter silenziare. Inoltre, sottolineo come, difendendoci dall’inquinamento acustico con una modalità di ascolto negata, o almeno intermittente, ci disabituiamo ad ascoltare il suono ritmico della natura, dell’altro e persino del nostro corpo interiore. Ci abituiamo a non ascoltare tout court. Questo è uno degli effetti più negativi che deriva dalla nostra sovraesposizione nel quotidiano a forme continue di inquinamento acustico. Passo poi a considerare il valore del silenzio e la sua capacità di scolpire i suoni, facendoli riverberare. Mentre tutta la prima parte del capitolo concentra l’attenzione sui suoni del quotidiano, nella seconda parte il focus si sposta sulle musiche del quotidiano. Queste ultime vengono analizzate a partire dal paradigma sociologico della musica come “agency”. A questo proposito, da una parte propongo alcuni esempi relativi all’impiego di dispositivi musicali per la definizione sociale e commerciale degli spazi pubblici; dall’altra, propongo di considerare il concetto di “io musicale” per analizzare le colonne sonore dei percorsi biografici di ciascuno di noi. Infine, considero il concetto di “passato acustico” e provo a delineare una possibile mappa dei principali percorsi di ricerca, attraverso i quali è stato indagato. Nel capitolo quinto propongo un decalogo per una mente che possa pensare in modo ecologico, ma sottolineo come tale decalogo sia da intendersi a titolo esclusivamente esemplificativo, in quanto a ciascuno spetta il compito di individuare un decalogo su misura e adeguato alla propria soggettività. Alla fine del decalogo sottolineo, da una parte, come una mente ecologica sia una mente che opera nel mondo e si fa carico della complessità di quanto succede, non sottraendosi alla società e, dall’altra, come una mente ecologica possa e debba farsi carico e confrontarsi con l’impermanenza di sé e degli altri. Nel capitolo sesto affronto la questione del rapporto con le altre specie viventi sia vegetali, sia animali, partendo dalle nostre idee condivise sia di città, sia di casa e mostrando come né la prima, né la seconda siano adeguate a rappresentare il continuum tra natura e cultura. In tale prospettiva, la casa non può continuare a funzionare come dispositivo di partizione ed esclusione tra la specie umana e le altre specie viventi. Inoltre, la città non può continuare a coincidere con la somma dei nostri edifici, prescindendo ad esempio dai parchi e dagli alberi che la abitano. Propongo poi una breve digressione sull’origine del concetto di sostenibilità. E’ ovvio che una mente ecologica non possa che abbracciare tutta la riflessione ambientalista in relazione alla salvaguardia del pianeta. Per coniugare il pensiero sostenibile con l’agire responsabile propongo di “ricongiungere il pensiero con la carne del mondo”, rielaborando Maurice Merleau-Ponty. Menziono successivamente il contributo delle Environmental Humanities e introduco il dibattito sull’Antropocene: è paradossale che proprio nel momento in cui assistiamo ad una tale supremazia dell’umano da divenire per i geologi forza trainante per il cambiamento del pianeta (“epoca antropocenica”), l’umano si debba fare da parte e cominciare umilmente a considerarsi una specie fra le specie, iniziando ad interrogarsi sui saperi e sulle conoscenze delle altre forme viventi. Nel paragrafo 3 passo a considerare le differenti prospettive disciplinari che si occupano del mondo vegetale: dalle neurobiologia vegetale di Stefano Mancuso alla teorie dell’intelligenza biologica di Monica Gagliano, dalla filosofia delle piante di Emanuele Coccia e di Byung-Chul Han all’antropologia di Eduardo Kohn, le foreste, gli alberi e i boschi acquisiscono finalmente piena cittadinanza nel mondo degli esseri viventi, mostrandoci le loro capacità di processare informazioni e persino di memorizzarle. Affronto nel paragrafo successivo la questione della cognizione animale, facendo riferimento ai contributi più recenti delle neuroscienze: menziono l’ipotesi delineata da Giorgio Vallortigara, secondo la quale le forme elementari dei processi cognitivi non avrebbero bisogno di grandi masse cerebrali. Su questa questione il contributo che lo sguardo sociologico può offrire è molto specifico e a mio avviso anche dirimente: la fallace convinzione, secondo cui la coscienza sarebbe una prerogativa esclusivamente umana fonda, letteralmente istituendolo, l’ordine del possibile e del pensabile, entro cui articolare la forma e l’organizzazione sociale del quotidiano. Gettare la vita animale nella condizione di una vita “senza alcuna forma di coscienza” amplifica enormemente la probabilità che gli animali di tutte le specie possano essere sottoposti a trattamenti disumani e crudeli da parte delle industrie dell’allevamento. Tratto poi la questione dell’ecologia del corpo animale e dell’invisibilità delle pratiche di violenza estrema che vengono perpetrate negli allevamenti intensivi. Per contrasto (e forse anche per intimo disgusto rispetto alle sevizie a cui lascio/amo che gli animali di cui mi/ci nutro/iamo siano sottoposti) nel paragrafo successivo propongo una digressione sul canto delle cicale e sulla capacità che esse hanno di istituire con i loro suoni un intero ambiente sonoro, dotato di un’influenza positiva sull’animo di chi vi partecipa. Infine, last but not least, torno all’annosa questione dei cyborg e dei loro diritti, riprendendo Donna Haraway. Propongo di immaginare nuovi ecosistemi sociali, in cui le linee di confine fra le specie e le parentele possano essere radicalmente ripensate e dove il pensiero tradizionale del patriarcato, le culture tossiche della discriminazione, del sessismo, del razzismo e dello specismo possano iniziare definitivamente ad evaporare: quali e quanti assemblaggi di materia inerte e vivente saranno ancora necessari per mantenere inalterata la supremazia feroce di un’unica specie su tutte le altre?

Tota, A.L. (2023). Ecologia del pensiero. Conversazioni con una mente inquinata. Torino : Einaudi.

Ecologia del pensiero. Conversazioni con una mente inquinata

Tota Anna Lisa
2023-01-01

Abstract

Nel primo capitolo analizzo il flusso del nostro pensare quotidiano, con l’intento di comprendere come migliorarlo, se e dove ciò sia possibile. Per farlo, parto da una metafora: quella offertaci dalla nozione di paesaggio. Osservo così le possibili risonanze tra il “paesaggio naturale” esterno (che diviene il contesto in cui elaboriamo i nostri pensieri), il “paesaggio come dimora dell’io” (cioè quella porzione di contesto esterno che ciascuno di noi investe simbolicamente di significato, nella quale ci rispecchiamo e che, pertanto, influenzerà ancora di più il nostro flusso di pensieri) e il vero e proprio “paesaggio mentale”, (cioè la cornice entro cui i nostri pensieri e le relative sceneggiature mentali prendono forma). Nell’ultimo paragrafo metto brevemente a tema alcuni dei possibili vincoli, entro cui i nostri pensieri prendono forma e, in particolare, accenno ad uno dei luoghi fondamentali, in cui queste forme sono trasmesse: la scuola. Individuare una lista esaustiva di tali vincoli sarebbe un compito fuorviante che eccederebbe totalmente le possibilità di un intero libro, figuriamoci quelle di un singolo paragrafo. Tuttavia, in quelle brevi riflessioni ne propongo almeno due che sono destinate ad avere effetti esiziali rispetto alle forme che il pensiero quotidiano di tutti noi potrà assumere: a) l’idea che il sapere e la conoscenza siano noiosi, aridi e nozionistici; b) l’idea che i saperi teorici i saperi pratici siano del tutto disgiunti e che possano procedere separatamente. La prima idea è rovinosa, perché allontana definitivamente tutti noi dall’unico vero strumento che abbiamo per pensare bene e vivere meglio: la cultura, in tutte le sue forme e manifestazioni. La seconda idea è rovinosa, perché crea una gerarchia fra i saperi e, istituendo tale gerarchia, legittima anche una gerarchia fra uomini e donne che si distinguono nelle differenti forme del sapere. In altri termini, si gettano le basi, perché il sapere, lungi dall’essere il volano per promuovere la valorizzazione di tutte le differenze sociali e culturali, assurga a base di legittimazione delle diseguaglianze sociali Nel primo capitolo analizzo il flusso del nostro pensare quotidiano, con l’intento di comprendere come migliorarlo, se e dove ciò sia possibile. Per farlo, parto da una metafora: quella offertaci dalla nozione di paesaggio. Osservo così le possibili risonanze tra il “paesaggio naturale” esterno (che diviene il contesto in cui elaboriamo i nostri pensieri), il “paesaggio come dimora dell’io” (cioè quella porzione di contesto esterno che ciascuno di noi investe simbolicamente di significato, nella quale ci rispecchiamo e che, pertanto, influenzerà ancora di più il nostro flusso di pensieri) e il vero e proprio “paesaggio mentale”, (cioè la cornice entro cui i nostri pensieri e le relative sceneggiature mentali prendono forma). Nell’ultimo paragrafo metto brevemente a tema alcuni dei possibili vincoli, entro cui i nostri pensieri prendono forma e, in particolare, accenno ad uno dei luoghi fondamentali, in cui queste forme sono trasmesse: la scuola. Individuare una lista esaustiva di tali vincoli sarebbe un compito fuorviante che eccederebbe totalmente le possibilità di un intero libro, figuriamoci quelle di un singolo paragrafo. Tuttavia, in quelle brevi riflessioni ne propongo almeno due che sono destinate ad avere effetti esiziali rispetto alle forme che il pensiero quotidiano di tutti noi potrà assumere: a) l’idea che il sapere e la conoscenza siano noiosi, aridi e nozionistici; b) l’idea che i saperi teorici i saperi pratici siano del tutto disgiunti e che possano procedere separatamente. La prima idea è rovinosa, perché allontana definitivamente tutti noi dall’unico vero strumento che abbiamo per pensare bene e vivere meglio: la cultura, in tutte le sue forme e manifestazioni. La seconda idea è rovinosa, perché crea una gerarchia fra i saperi e, istituendo tale gerarchia, legittima anche una gerarchia fra uomini e donne che si distinguono nelle differenti forme del sapere. In altri termini, si gettano le basi, perché il sapere, lungi dall’essere il volano per promuovere la valorizzazione di tutte le differenze sociali e culturali, assurga a base di legittimazione delle diseguaglianze sociali. Nel secondo capitolo considero, in primo luogo, una serie di forme di inquinamento verbale (fra le quali, il nemico interno, l’onnubilamento delle emozioni, il sabotaggio esterno, il nickname, le micro-aggressioni verbali e le tecniche di costruzione dell’irrealtà). Secondariamente, dopo aver illustrato alcune delle caratteristiche socioculturali della percezione del tempo nella società contemporanea (facendo riferimento ai numerosi studiosi che se ne sono estesamente occupati), procedo ad illustrare alcune forme di inquinamento della percezione temporale (fra le quali, il dilagare del futuro nel presente, la sindrome del pilota automatico e le varie forme di addomesticamento del futuro selvaggio). Nella terza parte del capitolo riprendo il concetto di spazializzazione dell’io per illustrare alcune possibili forme patologiche di organizzazione dello spazio domestico (come la disposofobia e il decluttering) che, lungi dall’essere mere espressioni di patologie psicologiche individuali, propongo di considerare alla stregua di forme estreme (e certamente patologiche) di resistenza alla società dei consumi e al feroce marketing dei desideri che essa promuove. Nella quarta parte introduco il concetto di “io-casa” (che viene confrontato con l’“io-pelle” di Didier Anzieu) e argomento la sua utilità ed efficacia esplicativa. Infine, nell’ultima parte prendendo spunto dall’opera di Alejandro Díaz: “Happiness is expensive” illustro quella forma compulsiva e patologica che ci induce a collocare esclusivamente nel mercato la possibile soluzione di ogni nostro problema e desiderio, facendo riferimento anche al concetto di “tesserini dell’identità”, proposto da Zygmunt Bauman. Nel capitolo terzo sposto l’attenzione dalle parole alle immagini e introduco il concetto di “inquinamento visuale”, argomentandone sia l’utilità e l’efficacia esplicativa, sia la complessità applicativa conseguente alla corretta considerazione dei risultati delle teorie dell’audience, secondo i quali soggetti diversi posti dinnanzi allo stesso testo iconico vedono cose, almeno parzialmente, diverse. Propongo, inoltre, di considerare al contempo sia la circostanza che noi siamo le immagini che vediamo, sia quella secondo la quale noi tendenzialmente vediamo ciò che siamo. Nell’applicare all’immaginario sociale i concetti di inquinamento e sostenibilità, affermo che: a) senza immagini l’io non può pensare se stesso; b) se non è sempre vero che siamo le immagini che vediamo, è certamente vero che le immagini che abitano i nostri pensieri derivano con un altissimo grado di probabilità dell’immaginario sociale circolante nella contemporaneità; c) pertanto, almeno una parte delle immagini che vediamo tendono a divenire una parte strutturante e costitutiva del nostro mondo interiore, in quanto noi siamo certamente le immagini che pensiamo. Introduco poi una breve digressione sul concetto di “guerra dei sogni” di Marc Augé, mostrando come gli immaginari diventino socialmente i mattoncini del lego, con cui si costruiscono e/o si smontano formazioni ideologiche altamente tossiche, quali il razzismo, l’omofobia o il sessismo (in termini più tecnici, possiamo affermare che questi ultimi sono le risorse che vengono impiegate per “naturalizzare” le diseguaglianze sociali). Pertanto, sottolineo come l’inquinamento visuale abbia contemporaneamente una dimensione individuale e una dimensione collettiva. Affermo, inoltre, che le immagini che pensiamo possono essere considerate come le forme estetiche del nostro io: sono gli arredi, attraverso i quali possiamo ammobiliare le dimore della nostra soggettività. Nella seconda parte del capitolo mostro, infine, come alcune serie televisive abbiamo contribuito a formare in modo estremamente rilevante l’immaginario sociale, a cui nella vita quotidiana facciamo riferimento. Le immagini che provengono dalla serialità televisiva, infatti, sono gli arredi con i quali possiamo ammobiliare le dimore della nostra soggettività. Costruiscono per noi un patrimonio condiviso di idee, valori, credenze e stili di vita, attingendo al quale possiamo pensare, conversare, sognare, parlare, sorridere, con-vivere. La domanda pratica che ne consegue è: quali sono i tipi di immaginari ai quali vogliamo esporre quotidianamente noi stessi? Peraltro, chiarisco che soltanto il singolo soggetto è in grado di identificare il tipo di immaginario adatto a sé: un immaginario negativo, per un soggetto, può rivestire un carattere catartico, mentre per un altro al contrario può divenire altamente inquinante. In tal senso, il concetto di inquinamento visuale è un utile strumento da portare con sé nella quotidianità, ma non deve essere in alcun modo inteso come strumento di censura dell’autorialità e di limitazione della creatività dei testi visuali. Nell’ultimo paragrafo propongo, infine, una breve digressione teorica sul concetto di intersezionalità. Nel capitolo quarto propongo di affiancare al concetto di paesaggio (landscape) quello di paesaggio sonoro (soundscape) e di declinare quest’ultimo all’interno di una prospettiva ecologica, analizzando le potenziali forme di inquinamento acustico del nostro quotidiano. Ciò al fine sia di comprendere meglio la composizione musicale delle nostre traiettorie biografiche, sia di mettere a fuoco gli intrecci tra soundscape e soggettività. Inoltre, propongo al lettore e alla lettrice di effettuare una vera e propria auto-etnografia dei suoni che quotidianamente ascoltiamo, per documentare appunto in che misura noi siamo potenzialmente anche i suoni che ascoltiamo. Riprendendo Murray Schafer, sottolineo il fatto che l’inquinamento acustico si verifichi quando non si ascolta più con attenzione: diventano rumori inquinanti tutti quei suoni del quotidiano che abbiamo imparato ad ignorare e che potenzialmente vorremmo poter silenziare. Inoltre, sottolineo come, difendendoci dall’inquinamento acustico con una modalità di ascolto negata, o almeno intermittente, ci disabituiamo ad ascoltare il suono ritmico della natura, dell’altro e persino del nostro corpo interiore. Ci abituiamo a non ascoltare tout court. Questo è uno degli effetti più negativi che deriva dalla nostra sovraesposizione nel quotidiano a forme continue di inquinamento acustico. Passo poi a considerare il valore del silenzio e la sua capacità di scolpire i suoni, facendoli riverberare. Mentre tutta la prima parte del capitolo concentra l’attenzione sui suoni del quotidiano, nella seconda parte il focus si sposta sulle musiche del quotidiano. Queste ultime vengono analizzate a partire dal paradigma sociologico della musica come “agency”. A questo proposito, da una parte propongo alcuni esempi relativi all’impiego di dispositivi musicali per la definizione sociale e commerciale degli spazi pubblici; dall’altra, propongo di considerare il concetto di “io musicale” per analizzare le colonne sonore dei percorsi biografici di ciascuno di noi. Infine, considero il concetto di “passato acustico” e provo a delineare una possibile mappa dei principali percorsi di ricerca, attraverso i quali è stato indagato. Nel capitolo quinto propongo un decalogo per una mente che possa pensare in modo ecologico, ma sottolineo come tale decalogo sia da intendersi a titolo esclusivamente esemplificativo, in quanto a ciascuno spetta il compito di individuare un decalogo su misura e adeguato alla propria soggettività. Alla fine del decalogo sottolineo, da una parte, come una mente ecologica sia una mente che opera nel mondo e si fa carico della complessità di quanto succede, non sottraendosi alla società e, dall’altra, come una mente ecologica possa e debba farsi carico e confrontarsi con l’impermanenza di sé e degli altri. Nel capitolo sesto affronto la questione del rapporto con le altre specie viventi sia vegetali, sia animali, partendo dalle nostre idee condivise sia di città, sia di casa e mostrando come né la prima, né la seconda siano adeguate a rappresentare il continuum tra natura e cultura. In tale prospettiva, la casa non può continuare a funzionare come dispositivo di partizione ed esclusione tra la specie umana e le altre specie viventi. Inoltre, la città non può continuare a coincidere con la somma dei nostri edifici, prescindendo ad esempio dai parchi e dagli alberi che la abitano. Propongo poi una breve digressione sull’origine del concetto di sostenibilità. E’ ovvio che una mente ecologica non possa che abbracciare tutta la riflessione ambientalista in relazione alla salvaguardia del pianeta. Per coniugare il pensiero sostenibile con l’agire responsabile propongo di “ricongiungere il pensiero con la carne del mondo”, rielaborando Maurice Merleau-Ponty. Menziono successivamente il contributo delle Environmental Humanities e introduco il dibattito sull’Antropocene: è paradossale che proprio nel momento in cui assistiamo ad una tale supremazia dell’umano da divenire per i geologi forza trainante per il cambiamento del pianeta (“epoca antropocenica”), l’umano si debba fare da parte e cominciare umilmente a considerarsi una specie fra le specie, iniziando ad interrogarsi sui saperi e sulle conoscenze delle altre forme viventi. Nel paragrafo 3 passo a considerare le differenti prospettive disciplinari che si occupano del mondo vegetale: dalle neurobiologia vegetale di Stefano Mancuso alla teorie dell’intelligenza biologica di Monica Gagliano, dalla filosofia delle piante di Emanuele Coccia e di Byung-Chul Han all’antropologia di Eduardo Kohn, le foreste, gli alberi e i boschi acquisiscono finalmente piena cittadinanza nel mondo degli esseri viventi, mostrandoci le loro capacità di processare informazioni e persino di memorizzarle. Affronto nel paragrafo successivo la questione della cognizione animale, facendo riferimento ai contributi più recenti delle neuroscienze: menziono l’ipotesi delineata da Giorgio Vallortigara, secondo la quale le forme elementari dei processi cognitivi non avrebbero bisogno di grandi masse cerebrali. Su questa questione il contributo che lo sguardo sociologico può offrire è molto specifico e a mio avviso anche dirimente: la fallace convinzione, secondo cui la coscienza sarebbe una prerogativa esclusivamente umana fonda, letteralmente istituendolo, l’ordine del possibile e del pensabile, entro cui articolare la forma e l’organizzazione sociale del quotidiano. Gettare la vita animale nella condizione di una vita “senza alcuna forma di coscienza” amplifica enormemente la probabilità che gli animali di tutte le specie possano essere sottoposti a trattamenti disumani e crudeli da parte delle industrie dell’allevamento. Tratto poi la questione dell’ecologia del corpo animale e dell’invisibilità delle pratiche di violenza estrema che vengono perpetrate negli allevamenti intensivi. Per contrasto (e forse anche per intimo disgusto rispetto alle sevizie a cui lascio/amo che gli animali di cui mi/ci nutro/iamo siano sottoposti) nel paragrafo successivo propongo una digressione sul canto delle cicale e sulla capacità che esse hanno di istituire con i loro suoni un intero ambiente sonoro, dotato di un’influenza positiva sull’animo di chi vi partecipa. Infine, last but not least, torno all’annosa questione dei cyborg e dei loro diritti, riprendendo Donna Haraway. Propongo di immaginare nuovi ecosistemi sociali, in cui le linee di confine fra le specie e le parentele possano essere radicalmente ripensate e dove il pensiero tradizionale del patriarcato, le culture tossiche della discriminazione, del sessismo, del razzismo e dello specismo possano iniziare definitivamente ad evaporare: quali e quanti assemblaggi di materia inerte e vivente saranno ancora necessari per mantenere inalterata la supremazia feroce di un’unica specie su tutte le altre?
2023
978-88-06-25415-5
Tota, A.L. (2023). Ecologia del pensiero. Conversazioni con una mente inquinata. Torino : Einaudi.
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