Noi siamo il cibo che mangiamo, l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo. Concetti come quello di inquinamento ambientale, acustico o elettromagnetico sono diventati per noi del tutto familiari. In ambito scientifico, il costruttivismo radicale e la fenomenologia ci hanno insegnato che noi siamo le parole che ascoltiamo. La nostra soggettività avrebbe dunque anche un fondamento discorsivo: una collezione di percezioni discontinue, come diceva David Hume. Dalla scuola di Palo Alto abbiamo imparato che le parole nutrono e sostengono le identità individuali (ma anche quelle collettive) e che ci sono parole che fanno ammalare: ascoltarle a lungo in determinate condizioni (quelle del doppio vincolo, ad esempio) può condurre a disordini gravi della personalità, quali la schizofrenia. Ci sono parole dunque - o meglio strutture discorsive - capaci di minare la soggettività, capaci di inquinare irrimediabilmente la vita istituzionale di un’organizzazione o di una collettività. Ma questo vale soltanto per i discorsi? E le immagini come funzionano: sono potenti quanto le parole? Nella società contemporanea infatti una delle risorse fondamentali con cui interpretiamo la realtà e con cui diamo significato alla nostra esistenza è costituita dalle immagini. In altri termini, potremmo ugualmente affermare che noi siamo anche le immagini che vediamo? Questa questione è peraltro epistemologicamente e cognitivamente complicata, perché se è pur vero che siamo anche ciò che vediamo, continua a valere anche l’esatto contrario: cioè, che vediamo ciò che siamo. In altri termini, il processo di attribuzione del senso non può mai essere indipendente dal soggetto che lo attualizza. Lo hanno detto i teorici della scuola di Costanza molti anni fa, ma continua a valere anche nella contemporaneità. Era il cosiddetto concetto di Erwartungshorizont di Jauss e Iser. Comunque, la questione che qui ci interessa concerne e investe lo statuto stesso dell’immaginario, in particolare di quello che si accompagna al testo parlato o scritto, come nel caso della televisione, del cinema, di internet, della pubblicità.

Tota, A.L. (2008). Riflessioni introduttive. In Tota Anna Lisa (a cura di), Gender e media. Verso un immaginario sostenibile (pp. 7-13). Roma : Meltemi.

Riflessioni introduttive

Tota Anna Lisa
2008-01-01

Abstract

Noi siamo il cibo che mangiamo, l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo. Concetti come quello di inquinamento ambientale, acustico o elettromagnetico sono diventati per noi del tutto familiari. In ambito scientifico, il costruttivismo radicale e la fenomenologia ci hanno insegnato che noi siamo le parole che ascoltiamo. La nostra soggettività avrebbe dunque anche un fondamento discorsivo: una collezione di percezioni discontinue, come diceva David Hume. Dalla scuola di Palo Alto abbiamo imparato che le parole nutrono e sostengono le identità individuali (ma anche quelle collettive) e che ci sono parole che fanno ammalare: ascoltarle a lungo in determinate condizioni (quelle del doppio vincolo, ad esempio) può condurre a disordini gravi della personalità, quali la schizofrenia. Ci sono parole dunque - o meglio strutture discorsive - capaci di minare la soggettività, capaci di inquinare irrimediabilmente la vita istituzionale di un’organizzazione o di una collettività. Ma questo vale soltanto per i discorsi? E le immagini come funzionano: sono potenti quanto le parole? Nella società contemporanea infatti una delle risorse fondamentali con cui interpretiamo la realtà e con cui diamo significato alla nostra esistenza è costituita dalle immagini. In altri termini, potremmo ugualmente affermare che noi siamo anche le immagini che vediamo? Questa questione è peraltro epistemologicamente e cognitivamente complicata, perché se è pur vero che siamo anche ciò che vediamo, continua a valere anche l’esatto contrario: cioè, che vediamo ciò che siamo. In altri termini, il processo di attribuzione del senso non può mai essere indipendente dal soggetto che lo attualizza. Lo hanno detto i teorici della scuola di Costanza molti anni fa, ma continua a valere anche nella contemporaneità. Era il cosiddetto concetto di Erwartungshorizont di Jauss e Iser. Comunque, la questione che qui ci interessa concerne e investe lo statuto stesso dell’immaginario, in particolare di quello che si accompagna al testo parlato o scritto, come nel caso della televisione, del cinema, di internet, della pubblicità.
2008
978-88-8353-607-6
Tota, A.L. (2008). Riflessioni introduttive. In Tota Anna Lisa (a cura di), Gender e media. Verso un immaginario sostenibile (pp. 7-13). Roma : Meltemi.
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