Aperto può significare molte cose. Con riferimento alla geometria, sta per ampio, esteso, privo di limiti ravvicinati; in termini distributivi, significa accessibile, in un certo senso anche condivisibile; rispetto alla tipologia, evoca l’assenza di coperture o di delimitazioni; con un’accezione procedurale, vuol dire modificabile, così come incerto, indefinito, imprevedibile, difficile da pronosticare, negoziabile; in termini gestionali, sta per attivo, funzionante, in atto o in corso, fruibile e disponibile. Il suo contrario è chiuso, a designare quel che è finito e definitivo, limitato e delimitato, inaccessibile, infungibile, inattivo, introverso, riparato, riservato o esclusivo. Alberto Iacovoni riflette su molte sfumature di senso dell’apertura, domandandosi come esse trovino di volta in volta traduzioni e tradimenti quando trasposte in linguaggio architettonico, muovendosi tra opere diverse per dimensione e mandato (case, piazze, monumenti, musei, intere porzioni di città), per collocazione storica e geografica, per espressività autoriale, per posizionamento politico. Alcune sono ‘architetture senza architetti’, come la sontuosa Place Jemaa el-Fna di Marrakech, con cui il libro si apre; altre recano firme autorevoli, come quelle, tra le altre, di Anne Lacaton e Jean Philippe Vassal, Rem Koolhaas, Le Corbusier, Mies Van der Rohe, Alison e Peter Smithson, Constant Nieuwenhuys, Aldo Van Eyck, Elizabeth Diller e Ricardo Scofidio, Palladio. Questa varietà di riferimenti rivendica che il tema non è l’apertura come espressione linguistica né come carattere tipologico, neppure come destinazione funzionale. Al centro del racconto è l’apertura come categoria di pensiero, una sorta di universale architettonico, incarnato in luoghi, dispositivi, materie, geometrie, ordinamenti spaziali e sociali dissimili, eppure tutti connotati dalla medesima tensione al ritrovarsi aperti e, nella interpretazione che mi sollecita, nello stare esposti, fuori e dentro metafora. Le opere citate infatti non sono politicamente neutrali, non si esauriscono mai nella tornitura di forme: propongono, orientano, inducono, consentono, incoraggiano, o viceversa inibiscono condizioni di esistenza, tanto individuali, quanto collettive, attraverso pattern spaziali che sono sempre anche la consapevole definizione di pattern sociali. In questo senso si espongono, prendono posizione, mostrano le proprie vocazioni etiche oltre che qualità compositive, costruttive o materiche, sono implicate con il mondo cui appartengono. È un messaggio cruciale per la cultura del progetto contemporaneo, in un momento di diffusa afasia: in controtendenza rispetto ad arroccamenti che sostengono l’autonomia del discorso sulla forma architettonica trovando nella ‘composizione’ il mandato del progetto, qui Alberto Iacovoni ci accompagna a osservare l’evidenza che la forma non è lo scopo dell’architettura, ma lo strumento di cui essa si serve per perseguire i propri obiettivi sostanziali, che riguardano le esistenze e i modi di stare al mondo.

Metta, A. (In corso di stampa). Architetture aperte, paesaggi esposti.

Architetture aperte, paesaggi esposti

annalisa metta
In corso di stampa

Abstract

Aperto può significare molte cose. Con riferimento alla geometria, sta per ampio, esteso, privo di limiti ravvicinati; in termini distributivi, significa accessibile, in un certo senso anche condivisibile; rispetto alla tipologia, evoca l’assenza di coperture o di delimitazioni; con un’accezione procedurale, vuol dire modificabile, così come incerto, indefinito, imprevedibile, difficile da pronosticare, negoziabile; in termini gestionali, sta per attivo, funzionante, in atto o in corso, fruibile e disponibile. Il suo contrario è chiuso, a designare quel che è finito e definitivo, limitato e delimitato, inaccessibile, infungibile, inattivo, introverso, riparato, riservato o esclusivo. Alberto Iacovoni riflette su molte sfumature di senso dell’apertura, domandandosi come esse trovino di volta in volta traduzioni e tradimenti quando trasposte in linguaggio architettonico, muovendosi tra opere diverse per dimensione e mandato (case, piazze, monumenti, musei, intere porzioni di città), per collocazione storica e geografica, per espressività autoriale, per posizionamento politico. Alcune sono ‘architetture senza architetti’, come la sontuosa Place Jemaa el-Fna di Marrakech, con cui il libro si apre; altre recano firme autorevoli, come quelle, tra le altre, di Anne Lacaton e Jean Philippe Vassal, Rem Koolhaas, Le Corbusier, Mies Van der Rohe, Alison e Peter Smithson, Constant Nieuwenhuys, Aldo Van Eyck, Elizabeth Diller e Ricardo Scofidio, Palladio. Questa varietà di riferimenti rivendica che il tema non è l’apertura come espressione linguistica né come carattere tipologico, neppure come destinazione funzionale. Al centro del racconto è l’apertura come categoria di pensiero, una sorta di universale architettonico, incarnato in luoghi, dispositivi, materie, geometrie, ordinamenti spaziali e sociali dissimili, eppure tutti connotati dalla medesima tensione al ritrovarsi aperti e, nella interpretazione che mi sollecita, nello stare esposti, fuori e dentro metafora. Le opere citate infatti non sono politicamente neutrali, non si esauriscono mai nella tornitura di forme: propongono, orientano, inducono, consentono, incoraggiano, o viceversa inibiscono condizioni di esistenza, tanto individuali, quanto collettive, attraverso pattern spaziali che sono sempre anche la consapevole definizione di pattern sociali. In questo senso si espongono, prendono posizione, mostrano le proprie vocazioni etiche oltre che qualità compositive, costruttive o materiche, sono implicate con il mondo cui appartengono. È un messaggio cruciale per la cultura del progetto contemporaneo, in un momento di diffusa afasia: in controtendenza rispetto ad arroccamenti che sostengono l’autonomia del discorso sulla forma architettonica trovando nella ‘composizione’ il mandato del progetto, qui Alberto Iacovoni ci accompagna a osservare l’evidenza che la forma non è lo scopo dell’architettura, ma lo strumento di cui essa si serve per perseguire i propri obiettivi sostanziali, che riguardano le esistenze e i modi di stare al mondo.
In corso di stampa
Metta, A. (In corso di stampa). Architetture aperte, paesaggi esposti.
File in questo prodotto:
Non ci sono file associati a questo prodotto.

I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.

Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11590/463327
Citazioni
  • ???jsp.display-item.citation.pmc??? ND
  • Scopus ND
  • ???jsp.display-item.citation.isi??? ND
social impact