Il presente lavoro di ricerca intende analizzare la configurabilità di una responsabilità civile dell’organo gestorio di società benefit per il mancato perseguimento della finalità di beneficio comune positivizzata nello statuto. In particolare, l’obiettivo perseguito è quello di verificare la stessa praticabilità di un’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori che si rendano inadempienti agli obblighi discendenti dalla scelta del modello societario in esame. Effettivamente, il fenomeno benefit si inserisce coerentemente nel quadro di interventi legislativi che hanno caratterizzato l’ultimo decennio, tutti tesi a introdurre un nuovo modo di “fare impresa”, riconoscendo all’economia una vocazione sociale e ispirata ai valori della sostenibilità. Non si può negare l’intento virtuoso di tali interventi e, tuttavia, per poter parlare di efficacia degli stessi il nostro sguardo non può che volgere ai rimedi previsti quante volte si riscontri la violazione delle prescrizioni legislative. D’altra parte, già Hans Kelsen nel 1934 ne “La dottrina pura del diritto” aveva rilevato che un obbligo non garantito da una sanzione si risolve, nella pratica, in un mero dovere morale e, comunque, in una figura indistinta e di fatto irrilevante nel mondo giuridico1. Di qui la necessità di verificare la sanzionabilità, in termini di responsabilità civile, degli obblighi nascenti dalla scelta di svolgere l’attività d’impresa non solo al fine di dividerne gli utili, ma anche per perseguire una o più finalità di beneficio comune, operando «in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti e associazioni ed altri portatori di interesse»2. Occorre evidenziare che il discorso che si intende intraprendere, sebbene sia limitato all’analisi delle soluzioni praticabili nel territorio nazionale alla luce della legislazione italiana, non manca, in un’ottica comparatistica, di volgere lo sguardo alle soluzioni adottate da altri ordinamenti, specialmente nel contesto statunitense. La ricerca, pertanto, prende le mosse dall’inquadramento del fenomeno benefit, a partire dalla sua genesi, per poi considerarne il “trapianto” nell’ordinamento italiano, ripercorrendo i tratti salienti. Nel primo capitolo verranno analizzate le peculiarità del modello in esame rispetto all’impresa tradizionale, cercando di individuare la ratio ad esse sottesa. Rappresentando il centro di interesse della presente ricerca, l’attenzionesarà rivolta, in particolar modo, alla definizione degli obblighi gravanti in capo agli amministratori. L’analisi, di conseguenza, si concentrerà sulla consistenza dell’obbligo di bilanciamento tra il tradizionale fine lucrativo e quello di beneficio comune, nonché sulla necessità di individuare una gradazione tra i due, come pure è stato prospettato. Quanto alle conseguenze connesse alla scelta di acquisire la qualificazione come società benefit, verrà, infine, presa in considerazione la possibilità e le condizioni in base alle quali i soci possono disinvestire attraverso l’esercizio del diritto di recesso, nonché le critiche mosse alla stessa scelta di introdurre un simile modello nell’ordinamento italiano, corroborate, probabilmente, dall’assenza di un enforcement sufficiente. Il secondo capitolo affronta la questione specifica della responsabilità degli amministratori per la violazione degli obblighi discendenti dalla qualifica come società benefit. Si è scelto, innanzitutto, di procedere con l’analisi del quadro normativo di riferimento, richiamato dalla legge in materia di società benefit3, esaminando nello specifico la natura della responsabilità degli amministratori a seconda del legittimato attivo. Strettamente connesso al tema della responsabilità degli amministratori è poi quello relativo all’applicabilità, nel giudizio di responsabilità, della regola di origine statunitense nota come business judgment rule. La cui rilevanza anche nell’ordinamento italiano e anche con riguardo al giudizio di responsabilità dei gestori di società benefit riduce ulteriormente la possibilità di esercitare un sindacato di merito sulle scelte operate dagli amministratori in sede di bilanciamento. Analizzata la disciplina predisposta per l’impresa tradizionale, si prospetterà l’applicazione delle singole disposizioni di legge al fenomeno benefit. Occorrerà, infatti, distinguere a seconda che la violazione degli obblighi connessi alla qualificazione come benefit sia fatta valere dalla società, dai creditori sociali, dai soci e infine dai terzi. E terzi non sono soltanto coloro che intrattengono rapporti contrattuali con la società, ma anche i portatori degli interessi considerati nello statuto, alla cui tutela si impegnano gli amministratori della società. È proprio con riferimento a quest’ultima categoria di soggetti che si presentano le questioni più spinose in ordine alla possibilità di riconoscere loro una legittimazione attiva al fine di far valere la responsabilità dei gestori per mancato perseguimento dell’interesse considerato nello statuto e di cui sono specifici portatori. Si ripercorrono, di conseguenza, tutte le tesi proposte chesebbene non convincenti, offrono utili spunti di riflessione anche al fine di meglio qualificare la posizione degli stakeholder. Dalla praticabilità o meno dell’azione di responsabilità verso i gestori da parte dei terzi portatori dell’interesse considerato nell’oggetto sociale discende anche la qualificazione della società benefit, rispettivamente, come strumento di empowerment degli stakeholder ovvero come mezzo per la valorizzazione dell’autonomia dei soci-investitori. Verranno illustrati, poi, i possibili strumenti di partecipazione dei terzi portatori dell’interesse considerato alla gestione della società in un’ottica non rimediale, ma preventiva, con lo scopo di condizionare le scelte connesse al perseguimento del beneficio comune. Nel terzo e ultimo capitolo l’attenzione sarà rivolta all’analisi degli strumenti di tutela predisposti sul piano pubblicistico attraverso l’espresso richiamo operato dalla legge 28 dicembre 2015, n. 208 alla disciplina in materia di pubblicità ingannevole (d. lgs. 2 agosto 2007, n. 145) e al Codice del consumo (d. lgs. 6 settembre 2005, n. 206), per il caso del mancato perseguimento della finalità di beneficio comune. Evidentemente, l’enforcement pubblicistico solo indirettamente rappresenta uno strumento di tutela dei terzi portatori degli interessi considerati nell’oggetto sociale. L’interesse direttamente tutelato, difatti, non è né quello del socio né quello degli stakeholder delusi da comportamenti opportunistici dei vertici aziendali, ma quello del professionista e/o del consumatore, nella sua dimensione pubblicistica, quale interesse alla creazione e al mantenimento di un mercato concorrenziale in cui è promossa la libertà di scelta e di autodeterminazione del contraente. In questo scenario, si condurrà un’analisi in generale delle due normative richiamate, anche alla luce della giurisprudenza più rilevante, verificando l’applicabilità delle stesse al fenomeno del greenwashing, riscontrabile anche in presenza di una società benefit che non persegua la finalità di beneficio comune prefissata con cui si presenta al pubblico.

Gola, C. (2025). La responsabilità degli amministratori di società benefit per mancato perseguimento della finalità di beneficio comune.

La responsabilità degli amministratori di società benefit per mancato perseguimento della finalità di beneficio comune

Clarissa Gola
2025-07-05

Abstract

Il presente lavoro di ricerca intende analizzare la configurabilità di una responsabilità civile dell’organo gestorio di società benefit per il mancato perseguimento della finalità di beneficio comune positivizzata nello statuto. In particolare, l’obiettivo perseguito è quello di verificare la stessa praticabilità di un’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori che si rendano inadempienti agli obblighi discendenti dalla scelta del modello societario in esame. Effettivamente, il fenomeno benefit si inserisce coerentemente nel quadro di interventi legislativi che hanno caratterizzato l’ultimo decennio, tutti tesi a introdurre un nuovo modo di “fare impresa”, riconoscendo all’economia una vocazione sociale e ispirata ai valori della sostenibilità. Non si può negare l’intento virtuoso di tali interventi e, tuttavia, per poter parlare di efficacia degli stessi il nostro sguardo non può che volgere ai rimedi previsti quante volte si riscontri la violazione delle prescrizioni legislative. D’altra parte, già Hans Kelsen nel 1934 ne “La dottrina pura del diritto” aveva rilevato che un obbligo non garantito da una sanzione si risolve, nella pratica, in un mero dovere morale e, comunque, in una figura indistinta e di fatto irrilevante nel mondo giuridico1. Di qui la necessità di verificare la sanzionabilità, in termini di responsabilità civile, degli obblighi nascenti dalla scelta di svolgere l’attività d’impresa non solo al fine di dividerne gli utili, ma anche per perseguire una o più finalità di beneficio comune, operando «in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti e associazioni ed altri portatori di interesse»2. Occorre evidenziare che il discorso che si intende intraprendere, sebbene sia limitato all’analisi delle soluzioni praticabili nel territorio nazionale alla luce della legislazione italiana, non manca, in un’ottica comparatistica, di volgere lo sguardo alle soluzioni adottate da altri ordinamenti, specialmente nel contesto statunitense. La ricerca, pertanto, prende le mosse dall’inquadramento del fenomeno benefit, a partire dalla sua genesi, per poi considerarne il “trapianto” nell’ordinamento italiano, ripercorrendo i tratti salienti. Nel primo capitolo verranno analizzate le peculiarità del modello in esame rispetto all’impresa tradizionale, cercando di individuare la ratio ad esse sottesa. Rappresentando il centro di interesse della presente ricerca, l’attenzionesarà rivolta, in particolar modo, alla definizione degli obblighi gravanti in capo agli amministratori. L’analisi, di conseguenza, si concentrerà sulla consistenza dell’obbligo di bilanciamento tra il tradizionale fine lucrativo e quello di beneficio comune, nonché sulla necessità di individuare una gradazione tra i due, come pure è stato prospettato. Quanto alle conseguenze connesse alla scelta di acquisire la qualificazione come società benefit, verrà, infine, presa in considerazione la possibilità e le condizioni in base alle quali i soci possono disinvestire attraverso l’esercizio del diritto di recesso, nonché le critiche mosse alla stessa scelta di introdurre un simile modello nell’ordinamento italiano, corroborate, probabilmente, dall’assenza di un enforcement sufficiente. Il secondo capitolo affronta la questione specifica della responsabilità degli amministratori per la violazione degli obblighi discendenti dalla qualifica come società benefit. Si è scelto, innanzitutto, di procedere con l’analisi del quadro normativo di riferimento, richiamato dalla legge in materia di società benefit3, esaminando nello specifico la natura della responsabilità degli amministratori a seconda del legittimato attivo. Strettamente connesso al tema della responsabilità degli amministratori è poi quello relativo all’applicabilità, nel giudizio di responsabilità, della regola di origine statunitense nota come business judgment rule. La cui rilevanza anche nell’ordinamento italiano e anche con riguardo al giudizio di responsabilità dei gestori di società benefit riduce ulteriormente la possibilità di esercitare un sindacato di merito sulle scelte operate dagli amministratori in sede di bilanciamento. Analizzata la disciplina predisposta per l’impresa tradizionale, si prospetterà l’applicazione delle singole disposizioni di legge al fenomeno benefit. Occorrerà, infatti, distinguere a seconda che la violazione degli obblighi connessi alla qualificazione come benefit sia fatta valere dalla società, dai creditori sociali, dai soci e infine dai terzi. E terzi non sono soltanto coloro che intrattengono rapporti contrattuali con la società, ma anche i portatori degli interessi considerati nello statuto, alla cui tutela si impegnano gli amministratori della società. È proprio con riferimento a quest’ultima categoria di soggetti che si presentano le questioni più spinose in ordine alla possibilità di riconoscere loro una legittimazione attiva al fine di far valere la responsabilità dei gestori per mancato perseguimento dell’interesse considerato nello statuto e di cui sono specifici portatori. Si ripercorrono, di conseguenza, tutte le tesi proposte chesebbene non convincenti, offrono utili spunti di riflessione anche al fine di meglio qualificare la posizione degli stakeholder. Dalla praticabilità o meno dell’azione di responsabilità verso i gestori da parte dei terzi portatori dell’interesse considerato nell’oggetto sociale discende anche la qualificazione della società benefit, rispettivamente, come strumento di empowerment degli stakeholder ovvero come mezzo per la valorizzazione dell’autonomia dei soci-investitori. Verranno illustrati, poi, i possibili strumenti di partecipazione dei terzi portatori dell’interesse considerato alla gestione della società in un’ottica non rimediale, ma preventiva, con lo scopo di condizionare le scelte connesse al perseguimento del beneficio comune. Nel terzo e ultimo capitolo l’attenzione sarà rivolta all’analisi degli strumenti di tutela predisposti sul piano pubblicistico attraverso l’espresso richiamo operato dalla legge 28 dicembre 2015, n. 208 alla disciplina in materia di pubblicità ingannevole (d. lgs. 2 agosto 2007, n. 145) e al Codice del consumo (d. lgs. 6 settembre 2005, n. 206), per il caso del mancato perseguimento della finalità di beneficio comune. Evidentemente, l’enforcement pubblicistico solo indirettamente rappresenta uno strumento di tutela dei terzi portatori degli interessi considerati nell’oggetto sociale. L’interesse direttamente tutelato, difatti, non è né quello del socio né quello degli stakeholder delusi da comportamenti opportunistici dei vertici aziendali, ma quello del professionista e/o del consumatore, nella sua dimensione pubblicistica, quale interesse alla creazione e al mantenimento di un mercato concorrenziale in cui è promossa la libertà di scelta e di autodeterminazione del contraente. In questo scenario, si condurrà un’analisi in generale delle due normative richiamate, anche alla luce della giurisprudenza più rilevante, verificando l’applicabilità delle stesse al fenomeno del greenwashing, riscontrabile anche in presenza di una società benefit che non persegua la finalità di beneficio comune prefissata con cui si presenta al pubblico.
5-lug-2025
37
DISCIPLINE GIURIDICHE PRIVATISTICHE
società benefit, responsabilità, amministratori
ROJAS ELGUETA, Giacomo
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