L’introduzione nell’ordinamento comunitario, e quindi nell’ordinamento italiano, dei principi contabili internazionali (IAS/IFRS) per la redazione dei bilanci consolidati e spesso anche dei bilanci d’esercizio di un nutrito numero di imprese solleva il problema del mutamento di paradigma valutativo nella misurazione del capitale e del reddito d’impresa. In particolare al paradigma del “costo storico” succede il paradigma del “fair value” o prezzo corrente, anche se non in termini puri e assoluti. Tra fine Ottocento e prima metà del Novecento le legislazioni dei paesi industrializzati sono passate dall’originario agnosticismo in materia valutativa all’accettazione del sistema di contabilità a costi storici, che sul piano tecnico era stato sostenuto con forza in Italia dalla concezione reddituale di Gino Zappa e negli Stati Uniti dalle elaborazioni di Yuji Ijiri, uscendo vittorioso nella contrapposizione ad altri sistemi valutativi fra cui già era stata prospettato quello fondato sul prezzo corrente o fair value. Il saggio esamina le ragioni per cui si è venuta affermando la contabilità a costi storici, evidenziando il prevalere della funzione del bilancio in termini organizzativi, quale strumento di rendicontazione degli amministratori ai soci e di misurazione dell’utile distribuibile, inteso prudenzialmente come utile realizzato. La crisi del sistema di contabilità a costi storici si rende manifesta negli anni Settanta del Novecento, paradossalmente nello stesso momento in cui il costo storico veniva assunto dalle direttive contabili di armonizzazione comunitaria come fulcro dell’informativa veicolata dal “bilancio europeo”. Molteplici fattori contribuivano a tale crisi, fra cui si segnalano in particolare: a) l’elevato tasso di inflazione che poneva il problema della “relevance” dei costi storici; b) la crescita dei mercati finanziari e l’esigenza di un’informazione affidabile e rilevante ad essi destinata; c) il conseguente sviluppo della concezione dell’informazione societaria come “bene pubblico”; d) la trasformazione della natura dell’impresa e la difficile misurazione dei beni immateriali che ne costituiscono spesso l’aspetto più importante. Di qui lo sviluppo di un sistema di informazione contabile che ha come destinatari privilegiati gli investitori che operano nei mercati finanziari e l’esigenza di offrire ad essi dati sul valore corrente del proprio investimento al fine di supportare le relative decisioni. Nel passaggio dall’accountability approach al decision-making approach l’accento si sposta dalla funzione organizzativa alla funzione informativa (esterna) del bilancio, dal paradigma del costo storico al paradigma del fair value. Ma ciò non è senza problemi, sia nel sostanziale trade-off fra reliability (maggiore affidabilità del criterio del costo storico) e relevance (maggiore significatività del fair value), sia nella difficile conciliazione tra funzione organizzativo/conservativa che vieta la distribuzione di utili non realizzati e la funzione informativa che fa emergere tutto il reddito prodotto, anche quello corrispondente a plusvalenze non realizzate.

Fortunato, S. (2007). Dal costo storico al "fair value": al di là della rivoluzione contabile. RIVISTA DELLE SOCIETÀ, fasc. 5, 941-964.

Dal costo storico al "fair value": al di là della rivoluzione contabile

FORTUNATO, SABINO
2007-01-01

Abstract

L’introduzione nell’ordinamento comunitario, e quindi nell’ordinamento italiano, dei principi contabili internazionali (IAS/IFRS) per la redazione dei bilanci consolidati e spesso anche dei bilanci d’esercizio di un nutrito numero di imprese solleva il problema del mutamento di paradigma valutativo nella misurazione del capitale e del reddito d’impresa. In particolare al paradigma del “costo storico” succede il paradigma del “fair value” o prezzo corrente, anche se non in termini puri e assoluti. Tra fine Ottocento e prima metà del Novecento le legislazioni dei paesi industrializzati sono passate dall’originario agnosticismo in materia valutativa all’accettazione del sistema di contabilità a costi storici, che sul piano tecnico era stato sostenuto con forza in Italia dalla concezione reddituale di Gino Zappa e negli Stati Uniti dalle elaborazioni di Yuji Ijiri, uscendo vittorioso nella contrapposizione ad altri sistemi valutativi fra cui già era stata prospettato quello fondato sul prezzo corrente o fair value. Il saggio esamina le ragioni per cui si è venuta affermando la contabilità a costi storici, evidenziando il prevalere della funzione del bilancio in termini organizzativi, quale strumento di rendicontazione degli amministratori ai soci e di misurazione dell’utile distribuibile, inteso prudenzialmente come utile realizzato. La crisi del sistema di contabilità a costi storici si rende manifesta negli anni Settanta del Novecento, paradossalmente nello stesso momento in cui il costo storico veniva assunto dalle direttive contabili di armonizzazione comunitaria come fulcro dell’informativa veicolata dal “bilancio europeo”. Molteplici fattori contribuivano a tale crisi, fra cui si segnalano in particolare: a) l’elevato tasso di inflazione che poneva il problema della “relevance” dei costi storici; b) la crescita dei mercati finanziari e l’esigenza di un’informazione affidabile e rilevante ad essi destinata; c) il conseguente sviluppo della concezione dell’informazione societaria come “bene pubblico”; d) la trasformazione della natura dell’impresa e la difficile misurazione dei beni immateriali che ne costituiscono spesso l’aspetto più importante. Di qui lo sviluppo di un sistema di informazione contabile che ha come destinatari privilegiati gli investitori che operano nei mercati finanziari e l’esigenza di offrire ad essi dati sul valore corrente del proprio investimento al fine di supportare le relative decisioni. Nel passaggio dall’accountability approach al decision-making approach l’accento si sposta dalla funzione organizzativa alla funzione informativa (esterna) del bilancio, dal paradigma del costo storico al paradigma del fair value. Ma ciò non è senza problemi, sia nel sostanziale trade-off fra reliability (maggiore affidabilità del criterio del costo storico) e relevance (maggiore significatività del fair value), sia nella difficile conciliazione tra funzione organizzativo/conservativa che vieta la distribuzione di utili non realizzati e la funzione informativa che fa emergere tutto il reddito prodotto, anche quello corrispondente a plusvalenze non realizzate.
2007
Fortunato, S. (2007). Dal costo storico al "fair value": al di là della rivoluzione contabile. RIVISTA DELLE SOCIETÀ, fasc. 5, 941-964.
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