La bozza di legge per il governo del territorio attualmente in discussione presso la Commissione VIII Camera contiene alcuni punti che hanno destato qualche perplessità. In particolare all'art. 5, comma 1, dove si prevede che siano le Regioni a stabilire gli ambiti di pianificazione e i relativi enti che tale funzione devono assolvere e, comma 4 (o 5, secondo le versioni), dove si dice “Nell'ambito del territorio non urbanizzato si distingue tra aeree destinate all'agricoltura, aree di pregio ambientale e aree extraurbane a destinazione non agricola di riserva urbanistica”. Per entrambi i punti la versione più aggiornata della bozza (datata 3 marzo) appare più “politicamente corretta” delle precedenti, prestando meno il fianco a critiche non pertinenti, ovvero frutto di esercizi tendenziosamente dietrologici. Se queste ultime non meritano particolare attenzione, questi punti meritano invece una discussione di contenuto più approfondita, perché riguardano nel profondo l'essenza della pianificazione, passata, presente e futura. Il primo punto contrasta senz'altro con una consuetudine ormai inveterata in Italia, che associa – anzi di fatto obbliga – un piano (regolatore generale) ad ogni comune. Come è noto né la legge del 1942 prevedeva questo (anzi, i comuni non espressamente “obbligati” dal Ministero dovevano chiedere allo stesso il “permesso” di fare il piano) e, alla lettera, nemmeno la “legge ponte” (1967), che tuttavia per i comuni non dotati di piano istituiva limiti di edificabilità (dentro e fuori il “perimetro dei centri abitati”) allora considerati assai ristretti. In seguito sono state le Regioni che hanno generalizzato lo “obbligo di piano”, e in sostanza di uno stesso tipo di piano, poiché, con pochissime eccezioni (es., per altro risultato non positivo, la Lr Abruzzo 18/83), non si è mai pensato di differenziare i piani delle città da quelli dei piccoli centri, o da quelli delle metropoli. Né del resto si è mai provveduto seriamente, in senso sussidiario, a mettere davvero i piccoli comuni – ovvero la maggioranza dei comuni, e del territorio nazionale – in condizioni di redigere dignitosamente il tipo di piano che veniva richiesto. Un piano che poi, nella maggior parte dei casi, è stato ridotto prevalentemente, o solo, a limitare/regolamentare l'attività edilizia; tuttavia (almeno in teoria) con un apparato cartografico, di “analisi”, etc., ma soprattutto amministrativo, delle cui stanche caricature sono ancora pieni migliaia di uffici tecnici comunali. Ed è proprio questo tipo di piano che per decenni ha caratterizzato gran parte della pratica urbanistica italiana – connotandone in negativo la percezione diffusa – e che resta per altro sottinteso come maggiore oggetto di attenzione anche nel nuovo disegno di legge: in questo senso configurandosi più come riforma della (pianificazione) urbanistica che non davvero del governo del territorio.
Avarello, P. (2004). Verso la riforma con cautela, ma senza nostalgie, n. 194/2004, ISSN 03992-5005, 3-4.
Verso la riforma con cautela, ma senza nostalgie.
AVARELLO, Paolo
2004-01-01
Abstract
La bozza di legge per il governo del territorio attualmente in discussione presso la Commissione VIII Camera contiene alcuni punti che hanno destato qualche perplessità. In particolare all'art. 5, comma 1, dove si prevede che siano le Regioni a stabilire gli ambiti di pianificazione e i relativi enti che tale funzione devono assolvere e, comma 4 (o 5, secondo le versioni), dove si dice “Nell'ambito del territorio non urbanizzato si distingue tra aeree destinate all'agricoltura, aree di pregio ambientale e aree extraurbane a destinazione non agricola di riserva urbanistica”. Per entrambi i punti la versione più aggiornata della bozza (datata 3 marzo) appare più “politicamente corretta” delle precedenti, prestando meno il fianco a critiche non pertinenti, ovvero frutto di esercizi tendenziosamente dietrologici. Se queste ultime non meritano particolare attenzione, questi punti meritano invece una discussione di contenuto più approfondita, perché riguardano nel profondo l'essenza della pianificazione, passata, presente e futura. Il primo punto contrasta senz'altro con una consuetudine ormai inveterata in Italia, che associa – anzi di fatto obbliga – un piano (regolatore generale) ad ogni comune. Come è noto né la legge del 1942 prevedeva questo (anzi, i comuni non espressamente “obbligati” dal Ministero dovevano chiedere allo stesso il “permesso” di fare il piano) e, alla lettera, nemmeno la “legge ponte” (1967), che tuttavia per i comuni non dotati di piano istituiva limiti di edificabilità (dentro e fuori il “perimetro dei centri abitati”) allora considerati assai ristretti. In seguito sono state le Regioni che hanno generalizzato lo “obbligo di piano”, e in sostanza di uno stesso tipo di piano, poiché, con pochissime eccezioni (es., per altro risultato non positivo, la Lr Abruzzo 18/83), non si è mai pensato di differenziare i piani delle città da quelli dei piccoli centri, o da quelli delle metropoli. Né del resto si è mai provveduto seriamente, in senso sussidiario, a mettere davvero i piccoli comuni – ovvero la maggioranza dei comuni, e del territorio nazionale – in condizioni di redigere dignitosamente il tipo di piano che veniva richiesto. Un piano che poi, nella maggior parte dei casi, è stato ridotto prevalentemente, o solo, a limitare/regolamentare l'attività edilizia; tuttavia (almeno in teoria) con un apparato cartografico, di “analisi”, etc., ma soprattutto amministrativo, delle cui stanche caricature sono ancora pieni migliaia di uffici tecnici comunali. Ed è proprio questo tipo di piano che per decenni ha caratterizzato gran parte della pratica urbanistica italiana – connotandone in negativo la percezione diffusa – e che resta per altro sottinteso come maggiore oggetto di attenzione anche nel nuovo disegno di legge: in questo senso configurandosi più come riforma della (pianificazione) urbanistica che non davvero del governo del territorio.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.