Una madonna pellegrina, ingessata d’azzurro e di bianco, sbuca sbilenca da una sporta in iuta. Tra le braccia di una donna ripresa di spalle, l’oggetto segue la traiettoria contraria di un treno regionale. La buia silhouette inanimata confligge con il taglio di luce verticale stretto tra le porte del vagone, pronte ad aprirsi alla prossima stazione. Con una sola immagine, statica e grezza, il simbolo sacro, l’impluvio più ampio della fede cristiana subisce una risignificazione radicale. È l’immagine campione della pratica di desacralizzazione costante messa in atto dal regista austriaco Ulrich Seidl nel secondo capitolo della sua personale trilogia sul paradiso umano: Paradies: Glaube (2012). Crocifissi, madonne, icone, acquasantiere e altarini arredano lo spazio domestico della protagonista in modo totalizzante. Così la sua vita; così l’immagine. Un rosario di plastica penzola dal collo, baciato tra le preghiere inconsistenti che Anna Maria recita per proteggersi da un’orgia blasfema scorta in un parco pubblico. Precedendo la donna, la Vergine di calcina entra nelle case, indossata come uno scudo da battaglia prima che si ripeta l’opera di coatta conversione su immigrati, miscredenti o reietti. Issata alla parete più esposta dell’inquadratura, un’enorme croce di legno sovrasta un letto, fino a quando, staccata dal muro, finisce sotto le coperte, tra le cosce. Questa, l’immagine più ardita del film, ne sublima il senso. A tutto campo, nitidissima e senza equivoci, l’azione blasfema è lo scampolo necessario di un ordito fittissimo, di cui l’oggetto sacro è la fibra più spessa, quella che tiene insieme la trama e che imbastisce il significato. Provocatorio, l’oggetto di fede non è più simbolo di pura trascendenza ma di autentica immanenza. Appoggiata su un tavolino da caffè, schiacciata tra bottiglie di vodka, sperduta tra gli accumuli della disperazione: la cosa sacra è aggredita dal resto. La regia costruisce la scena come gabbie in cui l’oggetto inviolabile, braccato, finisce in trappola. E con esso l’uomo. L’immagine è una cella per due, detenuti complici in camere comunicanti: l’emblema spirituale soggioga l’uomo fino all’abnegazione totale, anima e (letteralmente) corpo; l’uomo, altresì, distrugge l’aura mistica dell’oggetto con le irrinunciabili cose umane, sessuali (evidentemente). Richiamando Platone, alla ricerca dei significati simbolici e nel tentativo di dare un senso al simbolo religioso, Jung sostiene che quest’ultimo va «dal senso presente ad una ulteriore partecipazione di senso a cui l’incompiutezza del senso presente rinvia». L’oggetto-simbolo, proprio perché inanimato, non consola e non spiega, ma accenna, al di là di se stesso, a un significato ancora trascendente, inconcepibile, oscuramente intuito, che le parole del nostro attuale linguaggio non potrebbero adeguatamente esprimere. Nel film, l’oggetto sacro è portatore di un significato profondo del quale diventa espressione. Ma se per Seidl l’uomo è un baratro infinito, allora di cosa l’oggetto diventa simbolo: della distruzione inevitabile dell’uomo? È forse questo il significato trascendente, inconcepibile, oscuramente intuito? E se l’oggetto non sopravvive, quale senso deriva dalla sua distruzione?

Altobelli, V. (In corso di stampa). Frantumi di un (s)oggetto di fede. Paradies: Glaube di Ulrich Seidl. MANTICHORA, 14.

Frantumi di un (s)oggetto di fede. Paradies: Glaube di Ulrich Seidl

vincenzo altobelli
In corso di stampa

Abstract

Una madonna pellegrina, ingessata d’azzurro e di bianco, sbuca sbilenca da una sporta in iuta. Tra le braccia di una donna ripresa di spalle, l’oggetto segue la traiettoria contraria di un treno regionale. La buia silhouette inanimata confligge con il taglio di luce verticale stretto tra le porte del vagone, pronte ad aprirsi alla prossima stazione. Con una sola immagine, statica e grezza, il simbolo sacro, l’impluvio più ampio della fede cristiana subisce una risignificazione radicale. È l’immagine campione della pratica di desacralizzazione costante messa in atto dal regista austriaco Ulrich Seidl nel secondo capitolo della sua personale trilogia sul paradiso umano: Paradies: Glaube (2012). Crocifissi, madonne, icone, acquasantiere e altarini arredano lo spazio domestico della protagonista in modo totalizzante. Così la sua vita; così l’immagine. Un rosario di plastica penzola dal collo, baciato tra le preghiere inconsistenti che Anna Maria recita per proteggersi da un’orgia blasfema scorta in un parco pubblico. Precedendo la donna, la Vergine di calcina entra nelle case, indossata come uno scudo da battaglia prima che si ripeta l’opera di coatta conversione su immigrati, miscredenti o reietti. Issata alla parete più esposta dell’inquadratura, un’enorme croce di legno sovrasta un letto, fino a quando, staccata dal muro, finisce sotto le coperte, tra le cosce. Questa, l’immagine più ardita del film, ne sublima il senso. A tutto campo, nitidissima e senza equivoci, l’azione blasfema è lo scampolo necessario di un ordito fittissimo, di cui l’oggetto sacro è la fibra più spessa, quella che tiene insieme la trama e che imbastisce il significato. Provocatorio, l’oggetto di fede non è più simbolo di pura trascendenza ma di autentica immanenza. Appoggiata su un tavolino da caffè, schiacciata tra bottiglie di vodka, sperduta tra gli accumuli della disperazione: la cosa sacra è aggredita dal resto. La regia costruisce la scena come gabbie in cui l’oggetto inviolabile, braccato, finisce in trappola. E con esso l’uomo. L’immagine è una cella per due, detenuti complici in camere comunicanti: l’emblema spirituale soggioga l’uomo fino all’abnegazione totale, anima e (letteralmente) corpo; l’uomo, altresì, distrugge l’aura mistica dell’oggetto con le irrinunciabili cose umane, sessuali (evidentemente). Richiamando Platone, alla ricerca dei significati simbolici e nel tentativo di dare un senso al simbolo religioso, Jung sostiene che quest’ultimo va «dal senso presente ad una ulteriore partecipazione di senso a cui l’incompiutezza del senso presente rinvia». L’oggetto-simbolo, proprio perché inanimato, non consola e non spiega, ma accenna, al di là di se stesso, a un significato ancora trascendente, inconcepibile, oscuramente intuito, che le parole del nostro attuale linguaggio non potrebbero adeguatamente esprimere. Nel film, l’oggetto sacro è portatore di un significato profondo del quale diventa espressione. Ma se per Seidl l’uomo è un baratro infinito, allora di cosa l’oggetto diventa simbolo: della distruzione inevitabile dell’uomo? È forse questo il significato trascendente, inconcepibile, oscuramente intuito? E se l’oggetto non sopravvive, quale senso deriva dalla sua distruzione?
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Altobelli, V. (In corso di stampa). Frantumi di un (s)oggetto di fede. Paradies: Glaube di Ulrich Seidl. MANTICHORA, 14.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11590/486009
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