Il concetto stesso di città è strettamente connesso alle variabili manifestazioni sociali ed economiche del commercio: perfino nelle civiltà nomadi le città nascono intorno ai luoghi di mercato. Quasi per definizione le città sono storicamente “luogo di scambio”, e la loro evoluzione nel tempo segue anche l’evoluzione degli scambi commerciali, la loro ampiezza, le modalità con cui avvengono. Certo non solo scambio di merci, tuttavia il commercio – e in particolare il commercio al pubblico – non solo è storicamente un motivo forte di aggregazione urbana, ma è anche un fattore decisivo di organizzazione della città, e di caratterizzazione dei suoi spazi. In particolare degli spazi pubblici e collettivi, nei quali si esprime più che altrove il senso stesso della civiltà urbana. Se questo vale per il passato, dovrebbe poter valere anche per il presente, e magari per il futuro. Ma le cose non sono così semplici. Rispetto agli spazi che definiscono e qualificano le città del passato – i centri e le “città storiche” di oggi – gli spazi pubblici e collettivi della città contemporanea sono indubbiamente meno significativi, più deboli, sia dal punto di vista formale che come luoghi di aggregazione sociale. La nostra epoca, autodefinitasi “moderna”, ha introdotto una “cesura nella continuità della storia” (Tafuri), nel tentativo di adeguare la cultura sociale ai ritmi e ai rapporti imposti dalla industrializzazione e dal progresso tecnologico: rapporti di lavoro, rapporti interpersonali, ma anche rapporti con lo spazio che ci circonda e che usiamo.E sembra davvero che questa “cesura” non sia stata mai riassorbita del tutto. Il che spiega anche il generale – e spesso superficiale – apprezzamento per le parti più “antiche” e stratificate delle nostre città, e il discredito di cui soffrono per contro, non sempre a ragione, le “periferie” urbane. E oggi che, almeno nei paesi più sviluppati, si vorrebbe superata la fase storica del “moderno” – però non troviamo un aggettivo adatto alla nuova fase – emerge comunque una diffusa insoddisfazione per la qualità della città, cioè del principale ambiente di vita per la stragrande maggioranza dei cittadini.Ma i problemi del presente non possono essere risolti con la nostalgia di un passato spesso solo immaginato. Se davvero le nostre città non ci piacciono, dobbiamo poterle cambiare, così come hanno fatto i nostri nonni, bisnonni e così via. E per questo abbiamo bisogno di nuovi strumenti, anzitutto concettuali, e poi operativi. Ma abbiamo bisogno anche di nuovi “punti di vista”, a partire dai quali impostare nuove politiche. E in positivo, non come gioco di rimessa – sempre perdente – rispetto alle modificazioni in atto, che in gran parte sono strutturali, e quindi difficilmente contrastabili.
Avarello, P. (2004). Prefazione ( si tratta di una prefazione e non di un capitolo ). In Riqualificazione urbana e valorizzazione commerciale: un confronto internazionale (pp.9-12). Roma : INU Edizioni.
Prefazione ( si tratta di una prefazione e non di un capitolo )
AVARELLO, Paolo
2004-01-01
Abstract
Il concetto stesso di città è strettamente connesso alle variabili manifestazioni sociali ed economiche del commercio: perfino nelle civiltà nomadi le città nascono intorno ai luoghi di mercato. Quasi per definizione le città sono storicamente “luogo di scambio”, e la loro evoluzione nel tempo segue anche l’evoluzione degli scambi commerciali, la loro ampiezza, le modalità con cui avvengono. Certo non solo scambio di merci, tuttavia il commercio – e in particolare il commercio al pubblico – non solo è storicamente un motivo forte di aggregazione urbana, ma è anche un fattore decisivo di organizzazione della città, e di caratterizzazione dei suoi spazi. In particolare degli spazi pubblici e collettivi, nei quali si esprime più che altrove il senso stesso della civiltà urbana. Se questo vale per il passato, dovrebbe poter valere anche per il presente, e magari per il futuro. Ma le cose non sono così semplici. Rispetto agli spazi che definiscono e qualificano le città del passato – i centri e le “città storiche” di oggi – gli spazi pubblici e collettivi della città contemporanea sono indubbiamente meno significativi, più deboli, sia dal punto di vista formale che come luoghi di aggregazione sociale. La nostra epoca, autodefinitasi “moderna”, ha introdotto una “cesura nella continuità della storia” (Tafuri), nel tentativo di adeguare la cultura sociale ai ritmi e ai rapporti imposti dalla industrializzazione e dal progresso tecnologico: rapporti di lavoro, rapporti interpersonali, ma anche rapporti con lo spazio che ci circonda e che usiamo.E sembra davvero che questa “cesura” non sia stata mai riassorbita del tutto. Il che spiega anche il generale – e spesso superficiale – apprezzamento per le parti più “antiche” e stratificate delle nostre città, e il discredito di cui soffrono per contro, non sempre a ragione, le “periferie” urbane. E oggi che, almeno nei paesi più sviluppati, si vorrebbe superata la fase storica del “moderno” – però non troviamo un aggettivo adatto alla nuova fase – emerge comunque una diffusa insoddisfazione per la qualità della città, cioè del principale ambiente di vita per la stragrande maggioranza dei cittadini.Ma i problemi del presente non possono essere risolti con la nostalgia di un passato spesso solo immaginato. Se davvero le nostre città non ci piacciono, dobbiamo poterle cambiare, così come hanno fatto i nostri nonni, bisnonni e così via. E per questo abbiamo bisogno di nuovi strumenti, anzitutto concettuali, e poi operativi. Ma abbiamo bisogno anche di nuovi “punti di vista”, a partire dai quali impostare nuove politiche. E in positivo, non come gioco di rimessa – sempre perdente – rispetto alle modificazioni in atto, che in gran parte sono strutturali, e quindi difficilmente contrastabili.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.